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Considerazioni di Poetica

 

IL POETA COME TRADUTTORE AUTORIFLESSIONI MINIME

 

La solitaria ricerca lirica che mi pronuncia e mi esprime (la "solitudine corale" del poeta che è nel mondo ma non sostanzialmente del mondo, copista e traduttore dall'invisibile) mi ha sempre, spontaneamente e talora duramente resa refrattaria alle varie squille sperimentalistiche e all'effimera aggressività delle avanguardie o dei gruppi riconosciuti nel confuso panorama contemporaneo; quella che io perseguo – meglio, che attraverso di me si persegue – è piuttosto l'intemporale avventura della poesia come conoscenza, ad un tempo vitale ed ontologica, sensibile e spirituale: quotidiana "magia pratica" se si vuole, carmen o imperfetta preghiera tesa a restituire alla nostra percezione del mondo – non al mondo, che mai l'ha perduta – la sua pienezza e giustezza di presenza, alla verisimiglianza passionale dell'io la verità minima e cosmica del Sé che in ogni cosa e creatura si vela e si svela silenziosamente. È dunque una ricerca che posso dire più consonante all'accezione religiosa, vasta ma precisa, dell'antico ermetismo che a quella letteraria della corrente novecentesca nota con questo equivoco epiteto; molteplici – e, credo, più spontanee che culturalmente costruite – sono infatti le ascendenze e le consonanze di tale unitaria radice religiosa della mia poesia, rese sincronicamente omogenee dalla stessa qualità e intenzionalità meta-letteraria della parola-cosa (l'ebraico davar), che anche in me cerca di tradurre la svariante epifania del divino nell'umano secondo la sua logica (il suo logos): consonanze più che fonti, accostate non per onnivoro sincretismo ma appunto per spontanea "sete della fonte" comune: la tradizione platonico-cristiana e quelle orientali, buddiste e taoiste, la mistica medievale e barocca, i poeti elisabettiani e fra essi il grande George Herbert (di cui ho da poco tradotto una ricca scelta, ancora inedita, da The Temple) lo spinoziano amor Dei intellectualis fatto carne e opera in Simone Weil (di cui pure ho tradotto le poesie, di prossima pubblicazione presso Adelphi), l'altrettanto vertiginosa ed umilmente esemplare consumazione di Rebora, della sua verticale testimonianza lirica, nell'ortodossia ecclesiale (v. il mio studio Lo specchio e il fuoco, 1976), le bianche sintesi visionarie della "monaca ribelle" Emily Dickinson, l'eros ludico e il misticismo tragico di Else Lasker-Schüler (di cui pure ho tradotto un corpus di liriche, Ballate ebraiche e altre poesie). Altre ascendenze elettive mi legano – come l'atomo alla galassia – alla monodia di lode gregoriana, allo "stile concitato" di Monteverdi, a Mozart che contempla la fiaba vitale in dolente allegrezza, ai ciclici "duomi" meditativi di Bach... La poesia, che mi è dunque madre e maestra profonda, è creativa secondo l'etimo, ascesi verbale e (perché) autoconoscitiva, tentata mimesi e metessi della creazione continua del mondo da parte del divino: e quindi è scienza intuitiva e sperimentale della soglia, della condizione liminare in cui si toccano e interagiscono i diversi regni e potenze del creato stesso: è – vorrebbe essere, chiede di essere – bilancia, croce degli opposti o pietra di paragone fra anima e parola, io e mondo: paradigma almeno potenziale di verità secondo la formula di rapporto goethiana, capace quindi di mediare fra immagine e forma, apparenza e sostanza, mente (civiltà) e natura (dette un tempo res cogitans e res extensa, ovvero esperienza ed innocenza, consapevolezza e meraviglia). Il mare della vita e il cielo della scrittura si toccano sulla linea d'orizzonte della poesia che – al grado più alto – è la luce che li rende entrambi visibili ed eterni (quali sono) per tutti: la poesia è il limitante che contiene tutti gli illimitati, ed è composta per metà di lusinga (la parte letteraria, consolatoria, che proviene dall'io) e per metà di visione (la parte assoluta e oggettiva che proviene dal Sé): in questo senso, rovesciando l'assioma mallarmeano, si può dire che l'universo del libro esiste per metter capo a un mondo, al mondo vivente che è Parola oggettivata: e che il primato dell'arte e della poesia è – dantescamente – un primato ancillare, strumentale, nel senso musicale, politico o "femminile" del termine (nel senso in cui un grembo è strumento di vita). In questa funzione, se la poesia occidentale ne ritroverà la coscienza, sta la sua dignitas e la sua salvezza dal perdurante faustismo di eredità romantica, che ciclicamente la conduce all'afasia e all'autodistruzione. 

In concreto, le tappe personali di questa ricerca sono state finora le raccolte liriche L'arco (1978), La gloria oscura (1983), Concordanze (1985), dove progressivamente le premesse, dapprima sintetiche e quasi privatamente "cifrate" del mio cammino verso l'autocoscienza, si sono venute aprendo e arricchendo in animate dialettiche di temi ed elementi (e quindi di linguaggio): il maschile e il femminile nella loro dimensione concreta e simbolica, il "vario fuoco" vitale, gli incanti dell'eden e il "tempo anfibio" della storia, la dimensione familiare e materna e quella impersonale, il quotidiano e il mitico (v. il recupero di tale secondo polo, in chiave metaforico-apollinea, nella sezione finale di ConcordanzeDue miti), la morte e la rinascita, gli errores ulissiaci e le "geometrie della pietà" che sole possono ricomporli in armonico intelligere. Nella corposa quarta raccolta di imminente pubblicazione, Meridiana, quest'ultimo elemento – che è la shakespeariana ripeness, la maturità come pienezza di accettazione testimoniale, e rifiuto del limbo di onnipotenza onirica – assume un sapore di più vasta e schietta vivacità vitale, che esplora e concerta i risvolti "teatrali" e ludico-drammatici di varie "voci" e tipologie proiettive, oppure fissa i momenti riflessivi del proprio esserci per fare (dasein e poiein) nei pensieri della sezione finale, Senza verso, sigillandovi una tappa importante, se non definitiva, del proprio divenire per essere attraverso la vita, e della propria vita attraverso la poesia.   

                                                                                                                                                 (1986)

UNA COSTELLAZIONE MEMORIALE

Forse con qualche eccesso od indebito orgoglio, mi piace pensare alla nostra come all'ultima (per ora) generazione agonica europea, all'ultima espressione di quel gusto vocazionale alla testimonianza, al coinvolgimento inscindibile fra vita, pensiero e poiesis, intrecciato in una trama accesa con la storia contemporanea (gli anni Sessanta, il tempo della nostra formazione) mediante i fili policromi delle speranze e delle fedi personali, innestati a loro volta sull'ordito dell'utopia salvifica, palingenetica, che nutriva irripetibilmente gli anni kennediani e conciliari (è indubbio che dietro il '68 ci fosse, secolarizzata e politicizzata più in superficie che in profondità, la sete di quella renovatio che affonda le radici nella tradizione protestante e, a monte, in quella apocalittica del cristianesimo gnostico, che produsse nel Medioevo le "eresie" catare e albigesi): del resto il marxismo – con cui la nostra generazione ha ereditato dalla precedente l'impegno a fare i conti risolutivi, liquidatori, sul campo della società tecnologica, ma senza la tragica semplificazione della scelta operata dalla guerra e dalla Resistenza – il marxismo non ha mai nascosto la sua struttura di setta e di Chiesa alternativa, evidente nei suoi "santi", chierici e vangeli rossi. Per chi, come me, veniva da un habitat familiare ferito nelle sue elementari certezze vitali, sfornito peraltro di parapetti borghesi e di torrette ufficialmente intellettuali, per chi viveva in un microcosmo sostanzialmente ancora paesano (estollente il suo buon liceo di provincia, il Forteguerri, come un vessillifero ostenta lo stendardo odiosamato della sua secolare confraternita), l'assimilazione dei classici non fu coatta né ornamentale, ma perseguita con urgenza responsiva e bisogno di radicamento in un passato che sentivo spesso più presente del disagevole presente. L'assimilazione fu dapprima affiancata da una prevedibile congerie autodidatta di letture avide e non orientate (ricordo che allora i beats convivevano sul comodino e nella borsa con Maritain e con Goethe, Pasternak e Garcia Lorca con Tomasi di Lampedusa, Hawthorne ed Eliot con Musil e Kafka, Cechov e Nietzsche con Theillard de Chardin, allora da noi all'apice della fama, l'indigesto Sartre con l'amato Oscar Wilde e con l'amatissima galassia incantatoria di Proust): letture che comunque gravitavano tutte o quasi attorno all'alveo (spontaneamente cercato attraverso gorghi intimistico-elegiaci) della più tesa esperienza poetica europea, cioè di quella che più tardi avrei appreso essere il terreno dell'hölderliniana poesia pensante, ma che verso il '66-'67 mi appariva sotto le vesti variegate e avventurose, festive nella loro scommessa estetica, del decadentismo e del simbolismo, francese e russo in particolare (il corrosivo Rimbaud, il corrusco e doloroso Baudelaire che scopersi anche grande critico d'arte, il lunare Mallarmé, l'ironista Laforgue e i crepuscolari belgi, l'amatissimo Blok per il quale tentai invano di imparare il russo, Solov'ev e Beliy, nonché la musica e l'arte coeve, da Debussy a Mahler e da Skrjabin ai fauves): esplorai insomma il decadentismo europeo con fervore di neofita, eleggendo le sue voci portanti ad antitesi un po' semplicistica dell'estetismo dannunziano e del rinunciatario puer pascoliano doverosamente propostici dai programmi scolastici (anche la lezione di Montale, del primo Ungaretti, di certo Saba, agì, lateralmente, più tardi).

   Questa costellazione letteraria e poetica (non distinguevo allora fra i due elementi) in cui dominava di fatto la lezione romantica del titanismo demiurgico e della oltranza faustiana, non venne offuscata, ma semmai esaltata dal clima di Sturm und Drang ideologico-sperimentale (chi non ricorda "l'immaginazione al potere"?) in cui mi trovai scagliata all'avvio dell'università: le letture, diciamo, d'obbligo elettivo, degli amici e compagni di allora (Marcuse e Lacan in testa e i formalisti-strutturalisti a rincalzo, corroborate da dosi inizialmente notevoli di cortei, assemblee, dibattiti e volantinaggi, nonché da sociologia e cinema impegnato e "terzomondista") per la verità non mi entusiasmarono quanto gli incontri e le esperienze intellettuali precedenti, ma mi confermarono dal mio angolo – che è sempre stato, per destino, solitario, e mai ha potuto riposarsi o rassicurarsi in gruppi e consorterie – la tendenza propria della mia generazione, e forse di tutte le generazioni più vive, quella appunto a radicarsi nelle idee: tendenza che negli anni '70 divenne per alcuni, come è noto, antitesi con la realtà, violenta fino all'eversione socio-politica, ma che si è coerentemente conservata ed evoluta fino ad oggi sotto varie vesti (ecologiche, pedagogiche, parlamentari, perfino accademiche) nei migliori e meno velleitari rappresentanti di essa. I Bildungsjahre e il regno cangiante dell'inquieta possibilità (che i versi scritti allora non placavano) si chiusero per me nel 1973, quando il dopo-laurea e l'inserimento non agevole nell'insegnamento universitario coincisero con una forte crisi privata e con una sorta di morte e rinascita salutare, che mi proiettò di peso, con un moto dolorosamente esaltante eppure naturalissimo (il contraccolpo dal fondo all'alto di cui avevo letto in Kirkegaard senza capire) verso il mondo della necessità, cioè il mondo oggettivo della creazione con le sue leggi, che non negano ma comprendono la possibilità. Non fu un letterario ritorno all'ordine dettato da stanchezza del "placet experiri", ma una vera e sorgiva presa di coscienza dell'ordine profondo (cosmico, sociale, individuale, emotivo, espressivo) che regge l'apparente caos della molteplicità recepito dall'io, di cui finora ero stata inconsapevole e poco lucida prigioniera. A questa prima "discesa alle Madri" non furono estranee le consonanze allora già annose, ma che assunsero un nuovo senso umano, empatico, con il composito mondo dei vociani: l'"orfico" Campana, scoperto prima di ogni moda nel lontano '65 e poi fatto oggetto dei primi studi critici in volume, il tormentato spirito religioso di Boine e di Jahier, di cui scoprivo in me stessa "la ferita non chiusa" e il "servizio lirico", fino allo straordinario espressionismo stoico e tragico di Michelstaedter (di cui solo l'orgogliosa astrattezza giovanile persuase le intuizioni alla morte anziché alla vita) e soprattutto l'assoluto materno e la "mania dell'eterno" di Rebora, che da quegli anni non ho cessato di rileggere e di amare come un retto esempio del viaggio interiore, un amico eticamente adamantino ed espressivamente ricchissimo, incandescente e tenero, mai menzognero o futile. Ma soprattutto – propiziata da contatti umani fondamentali e "fatali", irripetibili nella loro provvidenzialità che imparavo in re a riconoscere – agì in me la scoperta della musica antica, il gregoriano, la polifonia rinascimentale, il barocco, Bach, Mozart, e parallelamente quella delle altre cattedrali di segni sacri, le tradizioni religiose occidentali e orientali, dai Vangeli (le cui pieghe conoscitive mi si svelavano soprattutto nel testo greco-latino, e arricchendosi nei cosiddetti "apocrifi" gnostici) ad Agostino, a Dante, ai mistici medievali e barocchi (San Juan, Eckhardt) alle Upanishads e alla Gitâ fino ai testi taoisti, zen e sufi (col grande poeta Rumi), ai quali mi accostavo reverente e sprovveduta, ma socraticamente consapevole (per la prima volta) dell'ignoranza soggiacente alla mia vernice letteraria, che si scrostava mostrando infine la sete di verità, quella "sete della fonte" che evocavo qualche anno dopo in una lirica omonima, riconoscendo che "il bere non [la] estingue ma soltanto / il divenire l'acqua con le labbra fissata" (ma anche Apollinaire, il melico avanguardista istintivamente prediletto, sapeva che bisogna "perdre / mais perdre vraiment / pour laisser place à la trouvaille", così come il petroso Jahier mi inciterà con le stesse parole al "coraggio di andare indietro / ritornare dove deviato / per avanzare davvero"; e Canetti additava anche alla mia generazione l'ossessa nudità del falso potere e delle "teste senza mondo"). 

D'un tratto – ma insieme a poco a poco, con pazienza, senza più temere il dolore, la fuga degli anni verdi e l'avvento della maturità che ora, attraverso la nuova famiglia donatami, vedevo piuttosto come una nuova infanzia, la vera infanzia della coscienza – capivo che il poeta non è solo col mondo vicario e astratto delle parole, chiuso nel sudato sogno della metafora-labirinto parallelo al mondo, ma che è solo – se questa è solitudine! – con le parole e le sostanze creatrici del mondo, ed è loro "vaso" e testimone; che non è relegato nel pathos saturnino della distanza cantato con luttuoso trionfo dal barocco e dal romanticismo; che la separatività, l'esilio dall'Essere, la malinconia della storia (del tempo, della memoria), lo spezzarsi del cerchio e la cultura dello scacco conseguente all'antropocentrismo esasperato non sono inevitabili o scontati; sperimentavo che non è irreversibile l'estraniamento fra coscienza e mondo, frutto dell'arroganza "maschile" della mente a cui risponde la querula elegia "femminile" dell'anima, scisse dall'unitario intelletto d'amore; che questo estraniamento non è fatale se non in quanto, e fino a che, ciascuno di noi non ha ancora conquistato la propria direzione e finalità interiore verso il Sé, trasformando in esso la sua sempre limitata, lacunosa ed egocentrica consapevolezza, fondata sulla persona e sull'ambizione (che l'etimo identifica rispettivamente con la maschera e con l'error ulissiaco, con la devianza, col delirare nella cerca esterna di ciò che è in noi, ma che percepiamo solo uscendo da noi, nell'unità con la vita di tutti gli esseri. Recentemente mi hanno aiutata in questo cammino, all'interno della traduzione dall'invisibile che è la poesia, le traduzioni (o meta-traduzioni) elettive di poeti: quelle da Else Lasker-Schüler, con la sua smagliante e dolente mitopoiesi di caduta e salvezza, che ben rappresenta la "via purgativa" della poesia; quelle dall'altera Juana Inés de la Cruz; quelle dell'elisabettiano George Herbert, grande poeta religioso che indaga da maestro attualissimo le alchimie interiori e addita la "via illuminativa" che congiunge la poesia alla santità, e che da preghiera imperfetta, qual è per sua natura, la trasforma in perfetta, o almeno in perfettibile; infine quelle da Simone Weil, massimo esempio per l'Occidente della ficiniana pia philosophia o logica mistica o scienza della fede, ottenuta con la dura ascesi della discesa concreta nel mondo degli oppressi. A lei, alla sua martyría esemplare per sostanza umana e globale ricchezza di intuizioni (storico-politiche, filosofiche, scientifiche, religiose) a lei e alla sua visione del " patto originario fra lo spirito e il mondo" ho dedicato recentemente un dramma in versi, La fonte ardente, che considero per ora il mio lavoro migliore (mio nel senso di "passato attraverso di me per esprimersi", perché il fine di ciò che scrivo non è soggettivo). Attraverso Simone, e guardando in noi, comprendiamo che la parola può e deve essere luce della realtà, e che questa e nessun'altra è la sua funzione nel nostro mondo del relativo; possiamo tener fermo, senza falsi timori di inattualità, che la letteratura, il mondo-libro, viene dalla mente e vuol consolare e vendicare della vita, mentre la poesia, il libro-mondo, viene dalla mente del cuore e dà respiro alla vita, fa il verso alla vita; che l'io è una finestra a vetri che dà sul mondo, ma che non ne lascia udire i suoni: se la finestra si apre e la vita unanime entra nella nostra stanza col suono-colore di tutti i suoi esseri, la finestra esiste ancora, ma è dimenticata: da essa ci si sporge sull'intero, sull'aperto, e la casa stessa diviene, in piccolo, l'intero. Di questa difficile eppure naturale apertura spero rendano conto progressivo le raccolte di poesia che ho fin qui pubblicato (scartati i troppo soggettivi versi giovanili); L'arco, La gloria oscura, Concordanze e soprattutto Meridiana, l'ultimo, dove esperienze, voci, potenze dell'anima vogliono essere, per me e per chi legge, i primi gradini della scala ad un tempo ascendente e discendente (ánodos e cátodos) che va "fino al cuore del mondo / dove l'alto è il profondo". 

                                                                                                                 

                                                                                                                                                             (1988)

SCENA E VISIONE

I due termini che formano il soggetto-oggetto di questa breve riflessione sono uniti da una particella che ha per me un senso vivamente dialettico, dinamico, e, vorrei dire, energetico: infatti la scena - in quanto "materia" spaziale, macchia insieme oscura e luminosa in cui prende corpo la "forma" dell'immaginario dell'autore - è scena della visione e per la visione, sua proiezione attiva e plastica, sua vera e propria incarnazione: sua policroma carne e sangue, si può dire, rispetto alla mente che ha concepito vicende e personaggi nel bianco e nero soggettivo, assolutizzante e silenziosamente (a volte ingannevolmente) "poetico" del foro interiore. Una carne e un sangue formati sia dal mobile e vicendevole corpo fisio-psichico degli attori, sia dal "doppio" dell'autore, il regista, che è tradizionalmente ciò che il critico è per l'opera letteraria o artistica: una sorta di artifex additus artifici o fido maestro sostituto, di moderatore inventivo fra autore, attori e pubblico: un artifex che nel corso dell'età contemporanea ha progressivamente abbandonato le vesti feriali del capocomico tuttofare per pararsi di quelle festive e togate dell'interprete, dell'alter ego e quasi del demiurgo platonico-wagneriano (come fa fede anche l'etimo del sostantivo: régisseur, poi regista, è filiato da regere e gemello di rex): demiurgo e riplasmatore di un testo che tende appunto a diventare - almeno nell'ottica dei registi stessi, e specialmente se l'opera è un classico, vero o presunto - una nuova materia prima per elaborazioni, sperimentazioni ed alchimie stilistico-formali il cui apice e i cui eccessi, toccati negli anni Settanta, si tende oggi tuttavia ad abbandonare in favore di un'interazione col testo più parallela che perpendicolare, più normalizzante che esplosiva (al limite, neo-accademica). Fatta salva la necessità costante di questa interazione, vitale per l'opera drammaturgica come, appunto, carne e sangue, moto ed espressione lo sono per dar voce interpersonale, transitiva, ai nostri pensieri e desideri, mi sembra da sottolineare in misura non minore la reciprocità del dittico sostantivale del titolo: scena e visione, scena della visione, ma anche visione e scena, visione della scena e per la scena: cioè proiezione spontanea, esternazione, da parte dell'autore, di quelle potenze dell'anima, tanto sua personale quanto collettiva, nella misura in cui l'autore è, o può essere, creatore e non solo creatura del suo tempo, suo medium appassionato, ma critico ed oggettivo fino all'impersonalità di eschilea, shakespeariana e verghiana memoria: che è la condizione del superamento della fantasticheria soggettiva in vera visione, e che dà luogo a quelle concrezioni di policroma trasparenza, insondabilmente refrattarie ed elastiche alla dissezione strutturale, a quegli organismi etico-estetici che chiamiamo "le grandi opere".

  Durante il farsi dell'opera l'autore proietta dunque quelle potenze interiori, quelle voci, su una scena parimenti interiore, ma non puramente fantastica, una scena "immaginale" più che immaginaria, nel senso che gli antichi e le religioni tradizionali davano all'espressione mundus imaginalis: il mondo dei corpi sottili, delle forme creatrici, forme-pensiero e forme simboliche, intermedio fra quello fisico e quello spirituale, loro duttile e affascinante connettivo, portatore dei segni e del linguaggio (dell'inventio): il mondo, insomma, degli archetipi, giacché lo spazio-tempo, le idee-luogo e le idee-destino, le situazioni e i personaggi ideati dal drammaturgo sono sempre - per quanto concreti e contingenti - degli archetipi (l'amante, l'amico, la madre, il padre, il figlio, la coppia, il traditore e il tradito, il tiranno, il burocrate, il distruttore, il fallito, il sognatore, ecc.): rinviano sempre, più o meno consapevolmente, ai "destini generali" dell'uomo, al gioco eterno e alterno fra essere e dover essere, essere ed esistere, apparenza e sostanza, idillio e tragedia, trasgressione e norma, grido e canto: ovvero, secondo la polarità iconica e simbolica più tipica del teatro, fra voce e silenzio, maschera (persona) e volto. E questo specialmente nel caso del teatro che accetta come sua definizione convenzionale e tradizionale quella di teatro di parola (che è anche inscindibilmente teatro di idee): il teatro, cioè, in cui io credo, e che privilegia una parola non puramente strumentale all'intreccio, al plot situazionale ed agli "effetti" del mestiere scenico; non una parola-libretto assorbibile in qualsiasi "musica" (o rumore) mimico-interpretativa, bensì una parola poetica in senso etimologico, portatrice di dignità euristica e di pienezza significante, matura e ferma (ancorché sostanziata di ricerca) nell'esprimere la Weltanschauung dell'autore, dinamicamente precisa nello scolpire le sfumature caratteriali ed emotive dei personaggi, ma sintetica nello slancio architettonico della costruzione di cui è pietra angolare. E l'autore di un tale teatro dovrà essere e/o tenderà ad essere (sulla linea del grande teatro classico, barocco e romantico europeo) un autore-poeta mozartianamente comico e tragico, capace letteralmente di "fare il verso" alla vita, di suscitare l'altezza e la profondità corale di una parola che sia insieme parola-idea e parola-gesto, e che abbia il carattere esemplare, icastico, testimoniale, capace di suscitare nello spettatore l'antica, aristotelica catarsi.

   Catarsi, senso profondo - ovvero direzione, telos - che troppo spesso manca od è gratuitamente rifiutata nei testi contemporanei, per lo più ancora tributari - per forza d'inerzia, si direbbe - di quello che Pasolini definiva sprezzantemente, nel celebre manifesto del '68, il "teatro della chiacchiera", cioè il piccoloborghese teatrino del rispecchiamento minimale e dell'ammicco corrivo allo spettatore, ovvero adepti aggiornati del "teatraccio", cioè di quello che resta dell'avanguardistico "teatro del gesto e dell'urlo" (cito ancora Pasolini): ed è, in entrambi i casi, un teatro dove il pubblico "stagna" a disagio o si annoia educatamente.

   Un teatro, dunque, del dover essere, quello di cui parlo, un teatro utopistico, astrattamente volontaristico e filosofico? Direi piuttosto un teatro di visione e di espressione, di parole e di vita, di parola, cioè, al servizio attivo, arduo e gioioso della vita: capace di non svuotarne di senso la ricchezza fonda e quotidiana nella superficialità scioccante dello spettacolo, oggi che, nella civiltà dell'immagine onnipervasiva, tanto la visione intuitiva quanto la meditazione e l'osservazione analitica tendono ad essere sostituite dallo "spettacolo in diretta", calco meccanico e consumistico, brutalmente fulmineo di un Dasein senza futuro. Un teatro, quindi, il cui carattere sia quello della convivenza partecipe fra attori e spettatori di una situazione drammatica, che sia a sua volta non generica, ma generale, universale, comune (nel senso di "comunitaria" e non di "banale"): che è poi il carattere stesso del teatro cosiddetto classico, antico e moderno, e il presupposto dell'identificazione attiva e durevole dello spettatore "plurimo" di fine millennio.

  È questo il teatro di cui faccio "oriente" e specchio il mio lavoro, il teatro con cui, nei limiti dei miei mezzi assai incoativi e in progress, mi sono misurata e che ho perseguito nelle sette pièces in verso e in prosa che ho composto negli ultimi anni (La fonte ardenteLa FeniceL'albero delle paroleLa MinimaAndrej Rubljòv, gli atti unici Il figlio e Specchio doppio), tutti centrati su personaggi in vario modo "esemplari", polarizzanti e trascinanti ancorché complessamente problematici e tragicamente interagenti col loro rispettivo milieu, appunto in virtù della loro ricerca di una geometria del cuore e della mente, di una religio anti-istituzionale e meta-istituzionale, di una giustizia dello spirito che illumini il mondo riscattandone la violenza preponderante e il caos apparente: di una "scena" viva e perenne per la loro visione.

                                                                                                                              In "Hystrio", 2, 1993.

ESSERE E SCRIVERE

 

Essere, scrivere: innocenza, esperienza. Questi, da sempre, i poli del rapporto consustanziale e dialettico su cui la mia vita si è fondata con l'imperiosa spontaneità di una radice, tesa in un succhio sempre esaltante ed ansioso di linfe. Vivere per dire, e dire per essere certa di esistere, per essere investita e rivestita - tornando a pronunciare il nome delle cose - di una pur fragile e precaria eternità. L'imperativo, scritto nel sangue del cuore fin da quando ho avuto coscienza di me, è stato quello di una grammatica generativa interiore: rendere transitivo il bene (cioè la realtà assoluta) intransitivo il male, dentro e fuori di me (più tardi avrei letto in Ungaretti che l'artista mira a sconfiggere la morte con le sue opere, "ma morte è anche la violenza, la menzogna"). 

Nata dentro il dolore, e quindi dentro un assoluto (mia madre era stata da poco segnata dalla morte lacerante di un figlioletto novenne) l'ho abitato e respirato come limo endogeno e quotidiano della gioia, della certezza vitale, di un'amorosa accettante pienezza non data ma da conquistare, da propiziare inventandomi (trovandomi), cioè inventando subito una lingua mia, fatta di molti linguaggi e dialetti semifantastici: ascoltavo a lungo la radio, da piccola, e sulle stazioni estere fortunosamente captate, in piedi per mezz'ore su una sedia davanti ad un gran "mettitutto" biancoazzurro, tentavo un pastiche edenico, una segreta e giocosa alchimie du verbe, il sogno istintivo - che poi seppi adamitico, mallarmeano e rimbaudiano - di una lingua totale, unitiva, polimorfa, comprensiva dell'anima, della mente e della fantasia: una lingua poetica. Questa lingua dentro e al di là della lingua, che usavo silenziosamente, anche per parlare con gli animali, ma anche con le stanze e con gli oggetti cosiddetti inanimati - per me animatissimi e dotati di viva personalità, secondo una forma di animismo magico infantile "autorizzata" nel poeta adulto da teorie di origine platonico-romantica come quella del fanciullo pascoliano - mi si eleggeva naturalmente in vocazione (solenne, insostituibile parola!) che in parte veniva alimentata, ma più spesso colluttava con le occasioni quotidiane della mia piccola città, assai paesana negli anni '50 e '60 (le amicizie, i primi affetti extrafamiliari, la scuola, pure amata) e si nutriva piuttosto di affinità elettive con voci ed esperienze di poeti e di artisti di un passato che sentivo sempre prossimo, perché riconoscevo in loro gli amici "primi", le presenze vive di un dialogo caro e necessario, che mi circondavano a comporre appunto il mio prediletto "libro degli amici", dalla costante espansione di nebulosa. Un libro dell'anima che annoverava via via, in musica, Mozart, Beethoven, Chopin e Schubert, più tardi Bach e la polifonia rinascimentale, Palestrina e Monteverdi, accanto all'imprinting generazionale dei Beatles e di Bob Dylan, in pittura Velasquez, Vermeer e Van Gogh, poi Pontormo, Lotto e i manieristi, e, in una nicchia di emozione metafisica, Piero della Francesca, e in letteratura (o meglio in poesia: le ho sempre distinte, come il legno dal fuoco) i russi, Cechov e Blok, Esenin, l'Achmatova e la Cvetaeva e Pasternak accanto a Oscar Wilde a lungo prediletto, a Shelley e Keats e Coleridge, Baudelaire e Proust, amatissimo fin dalla "scoperta" estiva nel '64, a Leopardi e Mallarmé accanto a Lorca e Guillén e al misterioso assoluto di San Juan de la Cruz; e questi, nel caos della formazione, accanto ai beats americani e magari ad oscuri poeti eschimesi o pellerossa, che bilanciavano Omero, Catullo e gli stilnovisti e Dante (mentre Petrarca ha sempre esercitato su di me un fascino senza amore), e Shakespeare, letto per lunghe notti nell'"integrale" sansoniana del Praz, insieme alla Dickinson, che mi folgorò per l'uso concreto della metafisica e dell'analogia, e poi, intorno ai vent'anni, Simone Weil (ancora sporadicamente tradotta) che rimase da allora, ciclicamente, la mia stella e magistra spirituale, con la sua intelligenza della santità e il suo lucido ardore sacrificale: un esempio di destino assoluto, a cui avrei dedicato nell'86 il mio primo, "eccessivo" lavoro teatrale. 

Meno, o più superficialmente, influivano, negli anni universitari fiorentini iniziati sotto il segno tutt'altro che pacifico del '68, letture "epocali" di psicanalisi (ma Jung ha lasciato forse più di un segno) e di strutturalismo/formalismo, supporti un po' volontaristici di quel Bildungsroman personal-collettivo che fu appunto l'esperienza del movimento studentesco, acme ed epilogo di un decennio di great expectations e di aperture ecumeniche della coscienza, respirate nell'aria (giungeva l'eco esaltante e controversa dell'esperienza di Don Milani, che un venticinquennio più tardi avrei a mio modo ripensato nel dramma L'albero delle parole). Scrivevo molto - poesie, naturalmente, e qualche tentativo di saggio "creativo" (ne ricordo uno, dal titolo ambiziosamente romantico, La nostalgia come forma creatrice, subito cestinato) - ma ero lontana sia dall'idea di pubblicare ciò che ho avvertito a lungo come ricerca non abbastanza oggettivata e quindi non transitiva, non transpersonale (non ho pubblicato versi fino al '78, mentre i due primi saggi critici, sull'amato Campana allora non così en vogue, risalgono al '73 e '74) sia dal riuscire a comporre in una sinergia armoniosa "l'arte e la vita", ovvero il mio concreto esistere quotidiano (in cui l'essere donna aveva indubbiamente gran parte, una parte che avvertivo spesso problematica, condizionante e "mascherante" - l'avanguardia femminista d'oltreoceano era difficilmente "incarnabile" nella mia vita introversa - o comunque riduttiva, non intimamente ma socialmente, rispetto al mio sentirmi cosmicamente creatura e persona) e la mia vita altra, creativa e fantastica, che spesso ho creduto con disperazione la sola vera, e che stava alla prima come l'acqua profonda sta all'olio che vi scivola sopra incessantemente, formandovi geroglifici fuggitivi, barbagli da decifrare. Ero conscia, fin troppo acutamente, della mia differenza e insieme della mia uguaglianza creaturale con tutti i viventi (ivi inclusi, anzi privilegiati i morti) e col cosmo intero; ma questa percezione stentava a tradursi in reciprocità concreta, in rapporti gratificanti, in lingua comune, malgrado i costanti e crescenti apprezzamenti intellettuali che mi parevano però rivolti non al mio essere intero, ma solo alla sua "corazza", alla sua "siepe" di conoscenze (?) che tardavano, mi pareva, a farsi strumento di pienezza vitale. 

Sono stati infine - del tutto tradizionalmente - il matrimonio e la maternità a donarmi (anche se tutt'altro che pacificamente) l'ubi consistam di un glutine insostituibile e decisivo per la crescita, in me, di quella capacità di reciprocità, di lingua comune appunto, dettata dalla mente del cuore, che tuttora sento necessaria alla poesia come l'aria al respiro; anche se l'autocostruzione del destino è necessariamente sempre in fieri, e l'equilibrio tra la folla degli io che si agitano dentro è sempre instabilmente agonico e da reinventare. Per questo, forse, la mia ricerca si è versata in anni recenti nella forma teatrale, come la più plastica e consentanea ad esprimere la "complessità multivaria" (come diceva Boine, uno dei vociani a me cari), la misura e la scena del mondo interiore mio e di tutti, attraverso le voci della storia e del mito. 

Credo tuttavia che la mia condizione - quella del poeta, e tanto più se donna (cioè due volte poeta, in arte e in vita: una farfalla che porta pesi enormi, senza i quali però non può volare) - sia quella che io chiamo di "solitudine corale": ma che, con gli anni, l'accento vada cadendo sempre più positivamente sull'aggettivo anziché sul sostantivo: la casa comune, di cui molto si parla perché poco ancora si sa costruirla, è "casa di cittadini e creature" come dice un mio verso: casa dove la differenza diventa ricchezza, perché, dantescamente, "diverse voci fanno dolci note", e l'armonia nasce da incessanti composizioni, compenetrazioni, intelligenze e consustanzialità. 

A questo, imperfettamente, mira tutto il mio lavoro di poetessa (ma preferisco "poeta", per pura fedeltà all'etimo), di drammaturga, di critico, di traduttrice e infine (in primis) di donna: questi due ultimi sostantivi ne formano in fondo uno solo, giacché il femminile è per sua essenza un metaxù, un elemento di mediazione e quindi di traduzione: dell'alto nel profondo, della vita in forma e nuovamente della forma in vita, nella spirale vertiginosa eppure semplice di un dono da mettere in opera.

                                         In AA.VV., Armonie di donna, 
Pistoia, Banca di Credito Cooperativo, 1995.

INCONTRO CON MAURA DEL SERRA (A seguito dell'intervento critico di Monica Farnetti) 

 

Ringrazio davvero vivamente Monica per queste sue vibranti, generose e "virtuose" parole a mia presentazione. Non vorrei a mia volta usarne molte, perché credo che la patria del poeta sia nella parola "altra", e più sua di tutte, dell'opera che lo attraversa e lo esprime; ma accolgo volentieri questa bella definizione da lei data della geometria o architettura della parola, che in effetti io perseguo da sempre. (Ma quando il poeta dice "io" è sempre, in senso ultimo, un abuso di autorità perché, come ben sapeva Rimbaud e prima di lui tutti i mistici, 'je' est un autre, il poeta viene parlato dalla parola, attraversato e preso da lei, mentre invece l'oratore la prende, come dice Kraus). Il problema sembra proprio, come ha chiosato Mallarmé per tutta la nostra tradizione simbolista, quello di sapere fino a che punto la parola appartiene al poeta: ma tale sembra alla ragione dialettica, perché in fondo il vero problema è quello di mettersi in ascolto, di farsi trasparente, "semplice di sostanze composte", come dice un mio verso, attraversando ciò che avviene di sapere con la mente per farlo giungere al centro vitale, alla mens cordis che Monica ricordava, e che è una intelligenza d'amore squisitamente femminile, che schiude sì gioie, ma anche ferite "raffinatissime", nel senso alchemico dei metalli e dell'oro. Questa primigenia sintesi di mente e cuore, presente nel nostro profondo, nel nostro "pensiero non pensato" (mi permetto ancora un'autocitazione) ben la conoscono tutti quelli che considero toccati dalla Grazia - con qualunque nome si voglia tradurre questo sostantivo teologico ed estetico - cioè appunto i veri semplici che tali sono ritornati, l'umanità nel suo stadio eroico-infantile e in quello della santità, che è un'infanzia infinitamente consapevole e sapiente; mentre la maggioranza di noi - compreso il poeta mentre vive "fuori di sé", nel tempo profano, sbriciolato, feriale - vive in uno stato purgatoriale, nel senso dantesco dell'aggettivo, cioè nello stato di mezzo, in una confusione che non è ancora fusione di sensi e spirito, di mondo personale e sociale. E tuttavia la confusione, il caosmagmatico è, o appare essere, la matrice della vita, e il poeta lavora al suo interno per trasformarlo in cosmos; con i suoi mezzi sempre molto poveri ed artigianali rispetto al tremendum che lo sovrasta e lo avvolge, maturandolo e consumandolo, lavora perché la confusione diventi fusione di quelli che alla nostra mente occidentale sono apparsi sempre gli opposti (luce e buio, arte e vita, maschile e femminile, scienza e ispirazione, ecc.) e che invece, nell'ascoltazione profonda di sé, appaiono e si rivelano sempre un'unità vivente. Perciò il richiamo finale di Monica al "femminile" mi sembra molto pertinente, soprattutto nel senso più intimo e cosmico, data l'androginia del poeta, uomo o donna che sia biologicamente, sessualmente (il "sesso" è, come sappiamo, una "separazione" etimologica, che ci affascina e ci tormenta in direzione dell'unità presentita e perduta). Il poeta è per me una piccola circonferenza munita di testa, mani e piedi, come nelle rappresentazioni medievali del macroantropos, che sono tutte di derivazione platonica. Da qui proviene anche il mio cercare insistente, attraverso la voce della poesia e quelle del mio teatro - da Simone Weil a Juana Inés de la Cruz, da Katherine Mansfield ad Agnodice alla "minima" madre Margherita Caiani - l'unità degli opposti, androgina nel senso più pieno e meno ambiguo dell'aggettivo: è una ricerca molto legata alla speranza, una speranza non cieca od ottusa, una speranza che è già certezza perché dotata di antenne euristiche, come la ricorda Dante: un "attender certo / delle cose future"), giacché, come spesso amo ricordare, il poeta è stato ben definito da Ungaretti "un soldato della speranza" che cerca la matrice stellare e terrena, la madre della parola che lo com-prende, che lo tiene insieme e lo trapassa come un filo di spada, e che si identifica alla fine con la vita stessa nel suo spirito e nel suo ciclo: la vita cerca l'arte senza cui non ha forma, l'arte cerca la vita senza cui non dà frutto. È il ciclo dell'albero, che non esclude gli incontri e gli scontri, anche molto drammatici, del poeta con la società del suo tempo, col dolore, l'ingiustizia e la violenza, con i frutti avvolti da spine come le castagne dal riccio. Questa circolarità aperta, tesa e proiettata dinamicamente è molto frequente nella mia poesia (il primo volumetto si chiamava L'arco, il quarto Meridiana): l'arco, la spirale, la cupola, le braccia amanti e materne da raggiungere dentro di sé, giacché il poeta è una madre, come ricordo spesso sulla scorta di Saba (un poeta apparentemente poco "religioso", nel senso confessionale, ma molto in quello creaturale e direi cellulare, organico). 

Vorrei aggiungere solo un ringraziamento per la presenza e l'attenzione di voi tutti che è così preziosa, perché il poeta che dice ed è detto dalla sua parola viene detto anche dal lettore e dall'ascoltatore: il lector in fabula non è una scoperta della semiologia letteraria di qualche decennio fa, ma un dato fondante di molte culture e civiltà d'Oriente e d'Occidente, compresa la nostra greco-latina e giudaico-cristiana fino al Medioevo, ma anche fino al Barocco. È preziosa questa scienza dell'ascolto comune e insieme individuale, per cui il lettore ricostruisce e nutre in sé l'opera del poeta, e il poeta diventa un medium, sia nel senso "spiritico" che tecnologico, una sorta di ricetrasmittente che trasmette "messaggi" - musiche, parole, rumori, silenzi - ad un tempo suoi e non suoi; suoi in quanto hanno il timbro, il colore, la melodìa della sua cassa armonica (come ci hanno provato le due giovanissime suonatrici di violoncello) e insieme filtrano un'armonia la cui sostanza non proviene da lui/lei. In questa scienza sperimentale della soglia e della fusione si consuma, si arrota, si appunta l'avventura creativa e vitale del poeta alla ricerca di sé e della sua unità originaria, "originale", col mondo. Perciò la voce della poesia, come io la sento, è insieme profondamente solitaria, di una solitudine che avverto molto anche generazionalmente, e che ho chiamato "corale" perché è profonda sul piano societario (il poeta non ha più nessuno status visibile e appare anacronistico nella società sfrenatamente produttivistica) ma insieme si nutre di armoniche profonde, di grande rispondenza sul piano cosmico e su quello creaturale e personale: la persona, la maschera, l'apparenza del poeta che davvero è tale tende sempre a spogliarsi di sé per diventare congenere, consentanea a tutto ciò che è creato. In questo sforzo continuo di spoliazione e di rivestimento (lo sforzo ascetico che ricordava Monica) cresce e si costruisce l'avventura della poesia, che posso chiamare mia nel senso in cui l'amante chiama sua l'amata, un senso di appartenenza senza possesso. Ma, in un altro senso, l'avventura del lettore è la più grande, quella che contribuisce ad indicare al poeta la sua strada (nel significato etimologico di 'via lastricata, attrezzata per il passaggio di tutti'): non c'è avventura più grande che far uscire un proprio libro di poesie e immetterlo nel mondo, come il figlio che si stacca dalla madre ed entra nel mondo per trovarvi voce e specchio di sé.

                                                                                                    Pistoia, Palazzo del TAU, 23 novembre 1998.

DIRE LA SCENA. IL TEATRO DELLA POESIA

 

Nella complessa e coessenziale interazione, genetica ed espressiva, propria del rapporto fra teatro e letteratura, intendo qui brevemente ritagliare ed estrapolare un côté verticale, un apice profondo per così dire, di questo rapporto: quello, appunto, fra teatro e poesia, in quanto forme che mi sono ormai ugualmente care e congeneri nell'esperienza creativa ed operativa, anche se la pratica della poesia risale per me ad anni infantili e quasi immemorabili, quella del teatro ad anni assai più recenti e maturi: se la poesia è la mia radice e il mio tronco cognitivo, il "genere" della parola che mi ha espressa in principio e tuttora mi esprime, il teatro ne è divenuto la "specie", la mia chioma che muta e si rinnova stagionalmente, fruttificando nelle varie pièces che ho composto nell'ultimo quindicennio. In questa coinvolgente frequentazione - o meglio, come dicevano gli antichi teologi, in questa "inabitazione" teatrale - ho potuto constatare, e l'ho sottolineato in altri interventi, che la mia persona di poeta diveniva il ricettacolo, la coppa intagliata di figure e segni, la forma colorata, il frame (come si usa dire) rispetto alla visione che mi abitava, scandendosi nelle "voci di dentro" che sorgevano nel bianco e nero assoluto dell'interiorità, del secretum (sia nel senso agostiniano e petrarchesco di fòro interiore, che in quello di secrezione, di linfa colante da una corteccia): un frame a cui poi regista, attori, scenografo, musicista, tecnici ecc. avrebbero fornito nuova "carne e sangue", complicando di molte potenze, oggettivanti e risoggettivanti, questo "gioco dell'amore e del caso" massimamente interattivo.

La scena mi appare dunque ad un tempo come materia e come forma della visione teatrale nata dalla poesia, come sua attiva e plastica incarnazione, dove le potenze dell'anima non restano in lei racchiuse - come nella poesia lirica, solo implicitamente diretta al lettore - ma cercano appunto un drama e un poièin esterno, la proiezione di un "fare" attivo, trans-personale, che leghi l'individualità profonda, "l'esplorazione del proprio petto", come dice Leopardi, alla coralità respirante delle emozioni e dei bisogni etico-spirituali comuni, nel progetto di un destino personale e collettivo. Il teatro di poesia, o meglio il teatro della poesia, nasce da questo mondo intermedio e fecondo, dal mundus imaginalis di forme simboliche, e direi senz'altro archetipiche, proiettate sulla scena fin dai tempi del teatro greco classico e di quello barocco, in una galleria di personaggi esemplari (come le figure delle icone e dei tarocchi): la madre, il padre, il figlio/figlia, gli amanti, l'amico (il confidente e la confidente), il malvagio e/o il traditore, il sognatore, il politico, l'ignavo, e quella varietà di vinto-vinciore che, a partire dall'Amleto shakespeariano, è ampiamente proliferato nella razza dell'"antieroe" o eroe negativo novecentesco: forme archetipiche funzionali e consustanziali al doppio respiro dell'anima e della scena, le quali si muovono entrambe, avventurosamente, cercando il loro linguaggio, fra essere e dover essere, sostanza e apparenza, idillio e tragedia, maschera e volto, trasgressione e norma, grido e canto, voce e silenzio: giacché anima e scena, poesia e teatro sono entrambe, per così dire, apparenze di sostanze, "forme vere".

Io credo, e spesso lo ribadisco, in un teatro che sia teatro di ricerca nelle idee e nell'anima, che privilegi una parola che sia in sé un verso vivo, plastico, duttile, e che dia un verso sostanziante, portatore di pienezza euristica, all'anima del nostro tempo così "virtuale", in balìa di un flusso caotico, violento ed acritico di immagini illusorie (che, diceva Kafka, invadono la coscienza); una parola che sia non puramente strumentale al plot della vicenda (come nel cosiddetto "teatraccio") e agli effetti del mestiere scenico (come nel caso di molti attori-registi tuttofare); una parola che non sia per così dire una tovaglia di carta usa-e-getta, ma un saldo tavolo che sostiene e mostra le vivande, apribile ed estensibile a molti generi di commensali e in molte direzioni dello spazio e del tempo: che sia cioè - come è sempre il miglior teatro di poesia, e com'è nel mio ideale - totale e polisemica, esatta e plastica, ispirata alla compresenza al di là dei generi che è propria dei classici antichi e moderni, così come della vita stessa, nel suo movimento polare fra gravità e grazia, tragico e comico, evocatività e scientifica architettura (penso naturalmente a Shakespeare, ma anche al binomio Da Ponte-Mozart, al quale mi sono spesso ispirata per l'atmosfera delle mie commedie drammatiche, particolarmente per Agnodice). All'ethos profondo che è intrinseco al linguaggio della poesia "riversata" in forma teatrale è implicito e connaturato un altro elemento quasi sempre disatteso, ignorato o rimosso nel minimalismo rinunciatario di gran parte del teatro contemporaneo (che fonde in una passíva mediocrità i due generi deprecati da Pasolini nello storico Manifesto per un nuovo teatro del '68: il borghese "teatro della chiacchiera" e l'avanguardistico "teatro del gesto e dell'urlo"): questo elemento è la catarsi di aristotelica memoria, ossia il viaggio proiettivo e liberatorio, la con-vivenza e l'odissea interiore dello spettatore nel testo.

Ce ne offre esempi storicamente portanti e stratificati la storia letteraria che è alle radici del Novecento, e che si è più attivamente intersecata con la poesia e col teatro, proiettandolo appunto nell'excessus fisico e magico della parola, cioè nella scena della poesia: penso alle ancora legnose ma potenti allegorie dei misteri medievali e poi a Dante (recentemente rivisitato da Tiezzi attraverso tre poeti italiani contemporanei, Sanguineti, Luzi e Giudici): Dante nella cui Commedia - ma già nella Vita nova - l'esperienza esistenziale e spirituale si orchestra in forme altamente teatralizzate di narrazione evocativa, che includono complesse scenografie simboliche (i cerchi, i gironi, i cieli, la Città di Dite, il nobile castello del Limbo, l'Eden sulla vetta del Purgatorio ecc.); penso all'epos favoloso dell'Ariosto come teatro della fantasia combinatoria trionfante, e che fu oggetto di una famosa ricostruzione ronconiana negli anni '70; penso alla poesia degli affetti e della psiche estremamente teatralizzata in senso pre-psicanalitico dal barocco europeo e, da noi, dal Tasso dell'Aminta e della Gerusalemme, col suo "stile concitato" mimato in musica da Monteverdi (e penso in parallelo al visionarismo surreale e dolente di Calderón); fino al titanismo e al solipsismo romantico dei personaggi di Alfieri, anch'essi oggi spesso rivisitati in chiave di gridato disagio postmoderno; penso a quel grande monologo allocutorio, lirico e civile, che sono I sepolcri foscoliani, e, sul versante parallelo, al teatro intimo delle voci morali ragionanti, in cui ha tanta parte l'ethos platonico e quello illuministico, delle Operette morali leopardiane (non dimenticando, sul terzo versante, la spiccata valenza teatrale, in senso corale-pedagogico, del romanzo di Manzoni più che delle sue tragedie); ma neppure sono da trascurarsi gli esempi dannunziani, non tanto quelli di un teatro di voci estetiche, ritualizzate su enfatici coturni espressivi, dei personaggi di Superuomini e di Femmes Fatales, ma considerando piuttosto il monologo franto ed eloquente della Contemplazione della morte e del Notturno, dove la "voce recitante" di D'Annunzio incarna una sorta di Dioniso e Crocifisso decadente, fra dostojewskiano e hofmanstahliano; fino alla multipla illusion comique di Pirandello e al suo fin troppo celebre "strappo nel cielo di carta" nella scena della coscienza, così nutrito dal teatro greco classico e dalle fonti romantiche tedesche; e, da lui disceso "per li rami", l'ethos civile e religioso inquieto, quasi giansenista di Betti e poi, sulla sponda iperlirico-barocca, l'impurità grottesca di Bene e l'oltranza drammatica di tipo espressionistico di Pasolini e di Testori, con le loro ideologie della passione che scagliano il lettore e lo spettatore così violentemente in fabula da riproiettarlo fuori da ogni catarsi.

Ma io sento assai vicini anche e sopratutto esempi di teatro di poesia non italiani, come quello di Eliot, che è da riconsiderare come antecedente di Luzi, e che è anch'egli assai tributario del teatro greco: nel saggio sulle "tre voci" della poesia Eliot considerava appunto come la più teatrale la voce "semidrammatica", né puramente lirico-soggettiva né del tutto oggettivata, e in quanto tale capace di uscire dall'io del poeta-drammaturgo per animare plasticamente i personaggi, conservando però la tensione metaforica dell'autore-testimone (in questo senso fanno testo non solo il Murder in the Cathedral e i drammi successivi, ma tutta la migliore poesia eliotiana, dalla Waste Land ai Four Quartets, i cui monologhi corali vedrei bene in una suggestiva chiave scenica). Ma, in senso letterale e letterario, fa testo per me anche l'incompiuta e imperfetta Venise sauvée di Simone Weil, anch'essa recuperata suggestivamente da Ronconi qualche anno fa: non per caso alla vita di Simone Weil, vero esempio di itinerario drammatico, spirituale e civile, sullo sfondo dell'Europa in preda alle lacerazioni delle dittature e della guerra, ho dedicato il complesso affresco del primo dei miei drammi in versi, La fonte ardente, che, scritto nell'85 e uscito nel '91, fu allestito dal "Teatro di Rifredi". Sulla linea di evoluzione di questo primo testo stanno gli altri due miei vasti affreschi epocali successivi, l'Andrej Rubljòv scritto in forma di prosimetro nell'87, ispirato alla grande figura proto-umanistica del pittore di icone russo a cui anche Tarkowskij aveva dedicato un famoso film; e, interamente in versi, La Fenice, uscita nel '91, centrata sull'altro dramma d'epoca e di coscienza di Sor Juana Inés de la Cruz, la "Decima Musa" del Messico barocco coloniale, interprete sublime e vittima sacrificale del suo tempo, lacerato anch'esso fra oscurantismo e lumi (il dramma ebbe due versioni sceniche, a Milano e a Firenze).

   Come "rami" di queste vaste sintesi sono rampollati da un lato i miei due lavori in prosa di ispirazione intimamente civile e di stile più umile, ma frutto anch'esso di attenta costruzione: il primo, L'albero delle parole (Premio Giangurgolo 1989) era ispirato all'esperienza pedagogica radicalmente innovatrice di Don Milani e della sua comunità giovanile; l'altro, La Minima, dedicato ad una beata del popolo, Madre Margherita Caiani: quest'ultimo è anche il mio unico lavoro scritto su commissione, per una sorta di sfida all'eredità romantica che postula l'assoluta libertà di ispirazione, che piegai ad un soggetto di pietas francescana e quotidiana (assai difficoltoso da affrontare drammaturgicamente, proprio perché "senza storia" e antisublime); dall'altro lato, il versante lirico-monologico del mio teatro si è concentrato nel testo Lo Spettro della Rosa (1992), rappresentato in Svezia tradotto in quella lingua ed uscito in rivista e in volume, ispirato al personaggio e al diario di Nijinskij, un altro "Dioniso" cruciale e cruciato del nostro tempo, che esprime la leggerezza angelica trafitta dalla violenza delle passioni e dall'orrore della Grande Guerra, in un conflitto fra grazia e gravità che anima anche il trittico o trilogia dei miei Versi per la danza scritti in seguito (StanzeTrasparenzeSensi) dove rispettivamente un personaggio maschile, uno femminile, e le proiezioni simboliche dei cinque sensi animano un teatro della coscienza in forme assai ritualizzate anche in senso simbolico e mimico-gestuale. Su questa stessa linea polimorfa si colloca il mio testo più recente, il Dialogo di Natura e Anima (uscito alla fine del 1998) il cui titolo è quello di una "operetta morale" poi mai scritta da Leopardi. E al côté della mia ricerca che più spiccatamente attinge al mito classico, liberamente elaborato, debbo i testi Specchio doppio, ispirato al mito di Eros e Psiche e vincitore l'anno scorso al "Premio Magna Grecia"; e Il figlio, complemento ideale del precedente, che vinse il "Flaiano" nel '92 ed è ispirato al mito di Altea e Meleagro, ossia al rapporto creativo-distrutttivo della madre verso il figlio, proiettato sullo sfondo degli effetti della guerra (quella del Golfo del '91, oggi tristemente reincarnatasi in quella jugoslava). La punta più avanzata in direzione filosofica di questo mio complesso approccio mitico è l'Eraclito del '97 (sottottitolo: Due risvegli) che attraverso questo arcaico e modernissimo filosofo, insieme occidentale ed orientale, la cui vita semisconosciuta ho reinventato, affronta le antinomie della coscienza di fronte all'amore, all'amicizia, alla conoscenza, al potere; l'altra "punta" è il "mito futuribile" Guerra di sogni (Premio Betti 1999) che è senz'altro il mio lavoro più sperimentale, frutto di un'invenzione linguistica molto spinta, tesa a mimare un mondo convulso e cupo, un po' orwelliano ma per nulla remoto, dominato da un totalitarismo genetico e virtuale, che viene riscattato dalla creatività amorosa e sacrificale dei protagonisti, i qua1i non per caso conservano i nomi di Febo e Cassandra. Ma il mio testo più "mozartiano" resta senz'altro Agnodice (vincitore del "Fondi La Pastora" 1996) dedicato ad un'affascinante figura di donna-medico di un'età alessandrina assai vicina alla nostra; qui ho potuto intrecciare verso e prosa, spirito aristofanesco-terenziano e comedy of shakespeariana, lacerazioni della protagonista e humour nei personaggi di contorno (il servo, le matrone); un testo di sintesi equilibrante, che considero assai vicino al movimento polifonico intrinseco alla vita e al suo "doppio" teatrale, mosso e interpretato dalla poesia.

                                                                                                       "Sipario", 606, dicembre, 1999.

LA POESIA PER IL MONDO

 

"Abbiamo l'arte perché non muoia in noi la verità", scrisse Nietzsche: e soprattutto in questo momento storico in cui l'umanità appare gravemente minacciata dall'oltranza arrogante del potere e dalle cieche menzogne della forza, la poesia deve e può tornare a collegarsi, anzi a consustanziarsi attivamente con la verità; può e deve essere, come diceva Pasternak, "funzione organica della felicità dell'uomo". Per offrire uno specchio anche al fiducioso slancio dei giovani qui presenti, che provano il loro volo creativo nella primavera vitale e in quella dell'anno, si può paragonare la poesia ad un fiume perenne e infinitamente ramificato, che resta nella sorgente pur circumnavigando senza sosta l'umano; ad un colore congenere alla luce della vita, ad un suono, sillabato e cantato, altrettanto congenere ed intimo alla sua voce. Ma questa funzione e presenza primaria, che congiunge l'arte alla memoria e perciò alla storia (ricordiamo che nel mito greco le nove Muse sono figlie partorite tutte insieme da Mnemosyne, la memoria appunto) appare oggi più che mai agonica, difficile e perfino minacciata, immersa com'è in una lotta molteplice: da un lato c'è la perenne lotta interiore del poeta e dell'artista coi limiti percettivi, etici e spirituali del suo io (la "siepe" leopardiana) e la dialettica feconda ma ambigua con l'io del lettore in fabula che estetiche recenti hanno reso cooperatore ad oltranza del testo creativo; dall'altro lato c'è la lotta del poeta coinvolto nella civiltà cosiddetta virtuale, che comporta la volgarità invasiva e il rumore di fondo banalizzante dei media, che tendono a ridurre il delicato equilibrio "a croce" fra significante e significato della parola alla metallica e brutale piattezza di uno slogan o di uno spot. È una lotta che assume valenze planetarie, se la si proietta nel crogiolo dell'attuale multiculturalità ed interculturalità, che è certamente feconda nei contenuti, ma spesso ancora selvaggia e caotica nelle forme, lontana da quell'armonica e paritaria "creolizzazione" della cultura rispettosa delle specificità, che molta teoria letteraria vorrebbe dare per acquisita. 

   In questo contesto ribollente di contraddizioni socio-culturali, invasive fino a minacciare il poeta di afasia (perché la voce del cuore canta forte, ma non fa rumore, come sapeva il Pascoli) i giovani sono da sempre i più adatti a scoprire e a vivere intuitivamente la meraviglia euristica della poesia, che è passione in quanto è etimologicamente anche pazienza introspettiva, e che è originalità in quanto è altrettanto etimologicamente originarietà, capace di unire fecondamente mito e storia, intuizione e ragione, dolore e conoscenza in una scienza insieme minima e massima della gioia vitale, in una co-scienza: perché la parola poetica serve la vita, le è insieme figlia e madre, e, sedendo sulle sue ginocchia, le porge quello specchio che nel simbolismo originario era figura non del narcisismo e della vanità, ma dell'anima stessa, e che può diventare, in una sorta di ingegneria magica archimedea, uno specchio ustorio delle "vanità" nemiche che la accerchiano, nonché uno strumento di reintegrazione del nostro io in quella "grande catena dell'essere" che ha la stessa forma spiralica (fisica e galattica) del DNA umano. In questo senso intimo e cosmico la poesia è, per usare un'espressione fisico-astronomica, il "punto di stella", ovvero il punto in cui il tempo può cambiare all'improvviso, e rivelarsi, con Platone ed Einstein, una "immagine mobile dell'eternità", una funzione dell'inafferrabile e palpabile sintonia cosmica. Una sentenza degli antichi gnostici diceva che "noi moriamo perché non riusciamo a ricongiungere il principio con la fine", ovvero perché la nostra storia non ridiventa natura ciclica: la poesia, io credo, può almeno virtualmente sanare questa ferita tragica e immemorabile, e la vita umana, da figlia naturale del tempo può divenire, tramite la parola e la visione poetica, figlia adottiva dell'eternità, in quanto partecipe della creazione, che è continua. 

   Ma la poesia è testimonianza non solo etico-spirituale, bensì, in senso lato ed etimologico, "politico" della condizione umana: dato che il poeta è insieme creatore e creatura del suo tempo, egli è segno "anfibio" di lode, di domanda e di contraddizione, ed è sempre istintivamente teso a prendere (cito Margherita Guidacci) "il partito delle radici / contro il lastrico delle vie, fossero pure imperiali", e pulsa sempre nel doppio ritmo della sistole che accoglie le voci del mondo e della diastole dell'offerta di sé, fino al punto di divenire sacrificalmente (e qui cito Katherine Mansfield, che usava la celebre immagine biografica di Van Gogh mutilatosi) "l'orecchio inchiodato alla porta, per sentire la voce di chi è fuori". 

   Il fare poetico, il poiein, al suo grado massimo coincide con un "essere ciò che si fa" che è un "fare ciò che si è": questa è la legge stessa del mondo creato, che vediamo attiva negli esseri impersonali (i corpi astrali, le piante, in una certa misura gli animali: e si può ricordare il proverbio in apparenza sessista ma in realtà molto profondo: "le parole sono femmine, i fatti sono maschi" a proposito dell'unione nuziale fra essere e fare che tutte le arti additano). 

  Riguardo alla qualità androgina, fluida, meta-personale della voce e della persona stessa del poeta (voce che già Saba proclamava "materna") si può anche ricordare che Betocchi definiva splendidamente il poeta, il cui tempo "è fulmineo", "come morto fin dalla nascita, / [...] come vivo dopo la morte", e che Marina Cvetaeva identificava la sua missione con uno "sfiorare l'organo con le dita di Bach / senza turbare l'eco": ma già Keats, nella famosa lettera del 27 ottobre 1818 a Woodhouse, diceva che il poeta è "la meno poetica delle creature", perché "non ha identità, ma di continuo foggia e riempie qualche altro corpo", e, se avverte la sfida di guarire la bellezza offesa nel mondo, è "come una fogliolina delicatissima nella mano rovente del pensiero" (lettera a Bailey, 23 gennaio 1818). 

  Se, dunque, la nostra storia umana è una serie esaltante e dolorosa di acquisti e perdite, la poesia è per sua essenza dono, capace, se ascoltata, di trasformare ciò che l'economista Amartya Sen ha definito "l'altruismo egoista" tipico del pensiero occidentale nell'egoismo altruista dell'uomo etico ed estetico, ossia in un "pensiero per il mondo", per ciò che nutre e giova, guarendo, col suo impegno creaturale e civile insieme, la sensazione del cosiddetto uomo comune di essere continuamente soverchiato e superato dalla storia senza esserne mai stato raggiunto, non riuscendo così a scolpire il volto della storia stessa nel suo riso e nelle sue lacrime: ma la poesia, nel suo secretum privato e corale, può trasformare quella che Leopardi chiamava "l'esplorazione del proprio petto" (e Baudelaire "il mio cuore messo a nudo") in un viaggio salvifico al termine delle notti oscure della natura e dell'anima. È necessario però che il viaggio della poesia sia concreto, fatto di parole-cose (come nell'ebraico davar che ha entrambi i sensi), e che non sia una fuga nella torre d'avorio o nel paradiso interiore, in una foresta di simboli soggettivi ovvero in un astratto "meglio che sia nemico del bene", che tanto spesso ha condannato il poeta all'amore-odio verso il proprio tempo, del quale egli deve essere invece testimone lucido e appassionato, non un demiurgo frustrato o un sacerdote cacciato dal tempio; perché, al di là dei miraggi consolatori della fama, o al contrario dell'oscurità, il poeta sa che la poesia è necessaria al mondo come scienza sperimentale dell'origine, degli alfa e omega creaturali e comunitari: mentre la scienza e la tecnologia "continuano" per così dire indefinitamente se stesse, la poesia "inizia" sempre, riconducendo all'origine l'umano, curando - se non cade nell'idolatria di se stessa - le febbri della superstizione e del fanatismo ideologico, contrastando la stessa distruttiva ignoranza del male. La poesia è perciò anche un attivo pellegrinaggio interiore, un "andare per il mondo" portando la lanterna della parola per far luce sulla realtà, trasformando quello che Marguerite Yourcenar ha chiamato "il giro della prigione" in un paradossale ma autentico libero destino, adottando la magnifica pazienza e lo slancio indomito della natura (e della civiltà in quanto figlia agguerrita della natura). Di questo slancio i giovani adepti della poesia qui raccolti e premiati sotto la nobile ala dell'UNESCO sono oggi l'incarnazione più lieta e confidente.

Intervento presentato nella "Sala degli Affreschi", sede del Consiglio Regionale della Toscana (Firenze), il 21 marzo 2003, nell'ambito della iniziativa "Una Poesia da Oscar", organizzata dal Centro UNESCO di Firenze in occasione della “Giornata Mondiale della Poesia” promossa dall'UNESCO.

 

 

 

 

CON LE  PAROLE  E SENZA

 

Saluto con stima e calore gli organizzatori di questo originale meeting "comparatistico" ed interlinguistico Con le parole e senza, e voi tutti gentili intervenuti.

  Sono particolarmente felice di ritrovare l'amata Svezia e la nobile Stoccolma, che è ormai per me una delle mie "patrie dell'anima" di questa nostra globale ma felicemente ramificata Europa; ed europea in senso etimologico io sento profondamente la mia poesia, nelle sue radici e nei suoi frutti: dedicarmi alla poesia fin da giovanissima è sempre equivalso a rispondere ad un imperativo vocazionale e testimoniale, ad una giustificazione - posso dirlo - della mia esistenza, nel senso di quel "patto originario tra lo spirito e il mondo" che rammentava Simone Weil: una risposta ad un dono che è una techne esigente, uno strumento conoscitivo dell'alto e del profondo della coscienza individuale, comunitaria e cosmica, nei limiti soggettivi in cui l'io personale lo consente. Approfondendosi nel tempo, la mia ricerca poetica e drammaturgica si è sempre rivolta, per naturale disposizione, in senso archetipico e simbolico e si è appunto alimentata di molte voci elettive della cultura poetico-filosofica ed artistica europea (dai lirici e tragici greci a Dante, dai mistici ai poeti metafisici inglesi, da Hölderlin a Eliot, ma anche alla Dickinson e ai simbolisti francesi e russi) e più in generale si è nutrita dei testi sapienziali "generativi" della tradizione sia occidentale che orientale che accomunano la cosiddetta "poesia pensante" (espressione in realtà pleonastica) e in particolare della poesia sufi, buddista, taoista e zen antica e moderna, che si è confrontata in me con le radici classico-cristiane e con le esigenze anti-retoriche delle avanguardie novecentesche. In questo senso un "ponte" ed uno specchio prezioso sono state le traduzioni da diverse lingue ed autori europei, che ho sempre scelto - o meglio, da cui sono stata scelta - in base ad affinità elettive profonde (da Shakespeare e Herbert a Proust e alla Woolf, da Thompson alla Mansfield, alla Weil e a Djuna Barnes), in quanto la traduzione, come "ponte" fra lingue e le Weltanschaungen, rispecchia il lavoro e la situazione stessa del poeta, che è quella di abitare i ponti e di "traghettare" gli stati di coscienza dall'invisibile al visibile e viceversa, in spirito di servizio e di testimonianza dell'unità nella molteplicità.

  Questa condizione non e per me né astratta né teoretica né tantomeno ideologica, bensì saldamente radicata nella quotidianità della mia esperienza "abbracciante", che è in primis femminile e materna (ma il poeta è sempre madre, diceva Saba) in senso creaturale e creativo, e perciò politonale, "multanime" o meglio "enarmonica", tesa cioè - nei limiti delle mie possibilità - a dar voce, ad essere voce dei diversi mondi viventi e senzienti. In questa dialettica fra io personale e Sé universale la poesia è quindi per me una sorta di artigianato salvifico, di scienza sperimentale delle cose prime e ultime, di figlia naturale del tempo e figlia adottiva dell'eternità, secondo la tradizione pitagorica e platonica.

   In questo viaggio vitale ed espressivo, che è insieme esaltante e drammatico, ed oserei dire sacrificale a causa dei limiti che il linguaggio trova nel dire-fare (e pronunziare in giustizia) il mondo (kosmos), ho sempre sentito affine e "parlante" il rapporto con le altre arti sorelle - le altre Muse nate dalla comune madre Mnemosyne, la memoria - in particolare la musica e le arti figurative classiche e moderne, più centrate su una ricerca di senso fondante, su una forma-sostanza individuale e comunitaria, "cosmica" in senso etimologico (kosmos come mondo e come bellezza). Le arti figurative sono solo apparentemente "senza parola", essendo traduzioni di una parola silenziosa in forme eloquenti, plastiche e dinamiche di materia, segno e colore di suono-colore (la Klangfarbe degli espressionisti): la scultura e la poesia, in particolare, sono entrambe un "dire cose" michelangiolesco, una sostanza tesa tra il pieno e il vuoto, l'esprimibile e l'inesprimibile, che può divenire, per l'artista, per il poeta e per il cosiddetto comune lettore o fruitore, un apprendistato, un viaggio (nel senso del latino viaticum) al di là delle rumorose apparenze, verso la luminosa e la silenziosa verità.

   Dedico dunque a voi, amici antichi e nuovi, particolarmente la mia opera poetica quarantennale, ora raccolta nel volume L'opera del vento (Venezia, Marsilio, 2006) e il suo recente pendant, l'antologia critica Poesia e lavoro nella cultura occidentale (Roma, Edizione del Giano, 2007) realizzata con totale indipendenza di scelte ma con spirito di servizio su richiesta della CGIL (il più grande sindacato italiano), a chiusura dei festeggiamenti per il centenario della sua fondazione: un'opera - quasi una sfida - non facile né breve ma assai stimolante per la scelta dei testi dei poeti implicati appunto nel tema del poiein/lavoro umano, a partire dal Dio biblico che crea il mondo tramite la parola (ruach o spiritus) fino alle voci più recenti del secolo appena concluso (l'unica vivente è l'acuta Wislava Szymborska).

   Questo incontro è dunque per me, e di nuovo ve ne ringrazio, un'occasione preziosa di confronto attivo, cooperante con l'avventura della condizione umana, affinché questa condizione non sia un abitare il mondo come una Babele globalizzata ma spersonalizzante e centrifuga di linguaggi, bensì come una domus architettonica dal centro ben orientato, dall'anima unica nelle sue mille forme, poiché, come dice Dante che anche voi amate, "diverse voci fanno dolci note", se è armonico il disegno del canto ed unitario il viaggio nel senso, che comprende il flusso eracliteo del fiume quanto la fermezza polare della stella.

                            Discorso tenuto presso l'Istituto Italiano di Cultura di Stoccolma (aprile 2008).

Interviste

Testo dell'intervista rilasciata da Maura Del Serra alla emittente televisiva T.V.L. in occasione dell'assegnazione del Premio "Ceva" 1986 alla raccolta poetica Concordanze, Firenze, Giuntina, 1985 

  Abbiamo il piacere questa sera di avere nei nostri studi la Dottoressa Maura Del Serra, che è una pistoiese, insegnante alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Firenze, ma soprattutto è una poetessa: ha vinto già numerosi premi letterari, il Premio Traiano, il Ceppo-Proposte, e sabato riceverà il Premio Nazionale di Poesia Città di Ceva. Ricevere con sole tre raccolte liriche tre premi di poesia nazionale, vuol dire essere già consacrati alla grande poesia? 

  Questo è abbastanza discutibile; potenzialmente, nell'ambito del sociale, forse potrebbe voler dire questo, però non è necessariamente così, perché quello che dovrebbe contare è la qualità del testo: per fare un gioco di parole, è il testo che dovrebbe far testo più che i giudizi delle giurie; in questo caso, trattandosi di una giuria particolarmente qualificata, naturalmente il riconoscimento fa piacere a chi, come me, conduce da sempre un lavoro molto appartato e solitario; però non direi che cambi niente nelle tappe del mio itinerario interiore, perché il lavoro del poeta è sempre un lavoro sotterraneo di scavo e di ricerca sul quale i riconoscimenti non incidono; possono incidere sul suo narcisismo, sul suo senso di autoconsiderazione, ma non toccano in nulla la sostanza del suo lavoro; quindi potrei rispondere insieme sì e no alla domanda. 

  Ecco, però, sul narcisismo del poeta incide di più un riconoscimento da parte di grandi critici, e quindi l'ottenere la soddisfazione di un premio, o il riconoscimento da parte del pubblico, del lettore? 

  Visto che la società letteraria ormai da molti secoli, o almeno dal Settecento, è estremamente elitaria e frantumata, e il concetto di pubblico è ormai quello di un pubblico potenziale - in parole povere, il poeta non sa più per chi scrive, ed ha in mente, quando scrive, un pubblico universale, quindi anche astratto, che è poi una sorta di specchio di se stesso; certamente nella pratica finisce poi per aver udienza prevalentemente presso i cosiddetti addetti ai lavori, che sono i critici ed un ristretto manipolo di lettori. Si crea un po' il famoso problema della "torre d'avorio", della destinazione del messaggio - e qui non è certo il caso di coinvolgere questi problemi che sono molto complessi. L'ambizione del poeta - e questa non viene dal suo narcisismo ma nasce davvero dal profondo - è l'ambizione e l'esigenza di rivolgersi a tutti, quindi ad un pubblico potenzialmente universale, e non agli addetti ai lavori. 

 

  Quindi, la poesia è o no comunicazione? 

  Certamente è comunicazione al grado più alto, essendo comunicazione sempre potenziale perché dipende dalla "qualità" del poeta: grado più alto che a volte finisce per escludere - almeno in apparenza - i gradi inferiori, quelli che i linguisti chiamano della denotazione, e per essere un linguaggio altamente comunicativo, altamente selettivo e metaforico; quindi si crea davvero un problema di comunicazione alla seconda o alla terza potenza, ma certamente la poesia è comunicazione, come lo è la musica, come lo è il linguaggio di tutte le arti: una comunicazione molto intensa, cristallizzata. 

 

  Ecco, Lei ha vinto e sabato, dicevamo, riceverà il Premio Ceva 1986 di poesia, ottava edizione, con il volume che vedete alle nostre spalle [sul video] Concordanze; la motivazione con cui Le hanno assegnato il Premio dice: "La poesia di Maura Del Serra si nutre di una straordinaria ricchezza di forme simboliche e di costruzioni allegoriche, sostenute da una fervida ispirazione religiosa e da una acuta sensibilità verso i valori formali della poesia". Lei si riconosce - o meglio, il libro può riconoscersi in questa motivazione? 

  Direi di sì è una motivazione sintetica, ma mi sembra che la Giuria abbia colto tutto sommato il carattere del libro, che è appunto quello di rintracciare le "concordanze" fra i diversi livelli della creazione, i diversi piani dell'essere, quindi fra divino e umano, fra cielo e terra, fra sensi e spirito, e anche fra linguaggio e mondo. Sostanzialmente direi che il lavoro mio, come quello di ogni poeta, è un lavoro (in senso lato, in senso etimologico) religioso, che cerca di collegare e, appunto, di far concordare i piani della creazione; è anche un lavoro di logica, anche questa intesa in senso etimologico: logica viene da logos e il logos è la parola, ma è anche il Verbum, quindi lo Spirito creatore del mondo: la logica poetica è la lingua della creazione. Per la piccola parte che io posso riceverne, testimonio di questo processo. 

 

  Lei ha pubblicato tre raccolte di liriche: L'arco nel '78, La gloria oscura nell''83 e Concordanze nell''85; i titoli di queste tre raccolte possono in qualche modo essere presi come chiave di lettura della Sua poetica? 

  Certamente, per quanto ogni titolo rispecchia in sintesi il carattere profondo, il messaggio, la motivazione che l'autore cerca di far giungere al lettore. L'arco esprimeva ancora una tensione irrisolta, dal personale, dall'io, dal soggettivo, verso l'oggettività, e la esprimeva appunto in forme molto tese, ellittiche, a volte anche astratte; La gloria oscura è un titolo un po' barocco che si riferisce alla condizione umana, che è appunto quella di essere gloriosa, ma oscuramente gloriosa, perché è una condizione di potenzialità e non di "atto" quindi nel titolo l'ossimoro è solo apparente. Concordanze è forse un po' il titolo globale che riassume i precedenti e cerca di portare alla piena luce questo processo, per cui i diversi piani dell'essere vengono a concordare fra loro; quindi cerca di rendere ragione delle antinomie che animano la nostra presenza nel mondo e di comporle in armonia. 

 

  Perché si scrivono poesie, perché si fa poesia? 

  Questa è una domanda... giustamente "provocatoria", che da sempre è stata fatta ai poeti; adesso però ci si limita appunto a chiedere ai poeti perché si scrivono poesie: Platone diceva che il poeta era un essere divino, sommamente temibile, che bisognava incoronare e poi cacciare dalla città, quindi era molto sentito questo suo quoziente di testimonianza dell'assoluto, fino ai limiti della pericolosità, della sovversione; era sentito molto questo suo potere di invenzione, di immaginazione che può cambiare il mondo, anche se poi i modi in cui il poeta lo fa sono sempre complessi e difficili, non immediati. Si scrive poesia (nel mio caso, ma credo di poter parlare per tutti i poeti) perché il terreno di partenza e quello di arrivo sono sempre comuni, è soltanto nel luogo intermedio che le tappe cambiano - si scrive poesia per testimoniare, per gettare un ponte, per fare - mi perdoni il termine - i "pontefici", anche qui in senso etimologico, per stabilire dei legami autentici fra sé e il mondo, e questo lo si fa per tutti, a nome di tutti: il poeta è semplicemente un testimone, e non ha, in questo senso, nessun diritto all'autoesaltazione, a un senso di elezione "profetica" o di demiurgia particolare: è un testimone, un interprete dell'umano; è un traduttore dall'invisibile al visibile e viceversa, quindi, se è un buon traduttore avrà il merito appunto di aver ben tradotto questo testo invisibile che leggiamo tutti e da cui tutti siamo letti. 

 

  Una curiosità che forse molti nostri telespettatori avranno e che io personalmente ho tutte le volte che mi accosto a un testo di poesia: come nasce la poesia? La poesia è un artificio letterario oppure nasce spontaneamente? 

  Direi senz'altro che alla base della poesia c'è quello che i romantici chiamavano l'intuizione, l'ispirazione, la théia moira dei Greci, quindi una visione: infatti il vocabolo idea testimonia di questo: l'idea è una visione. Da questa visione immediata, che è intuizione di corrispondenze fra uno stato dell'essere e uno stato dell'apparire, e che si focalizza in una immagine-guida, il poeta deve poi portare alla luce un discorso, proprio un logos: quindi deve ricorrere alla tecnica, a tutta la strumentazione letteraria, culturale, ideologica - nel caso di chi ha un'ideologia che gli fa da supporto -: la poesia è l'uno e l'altro, è visione e tecnica; nella sua radice prima è visione, intuizione, una intuizione - diciamo - logicamente sviluppata. 

 

  Maura Del Serra quanto porta del poeta nella sua professione di insegnante universitaria, e viceversa? 

  Forse potrebbero dirlo meglio gli allievi, gli studenti; certamente credo di portare molto, nel senso che non riesco a insegnare per puro mestiere, con una trasmissione meccanica di dati culturali, ma nell'insegnamento - trattandosi poi di letteratura italiana, nel rivisitare la nostra tradizione, che è poi forse per due terzi tradizione poetica, ne do una reinterpretazione, spesso anche molto personale; quindi porto senz'altro molto di questa tradizione nella poesia e viceversa. 

 

  Un'ultima domanda: qual è, se esiste, quali sono, se esistono, i suoi poeti? 

  Qui ci vorrebbe davvero un lungo discorso, potrei citare moltissimi nomi e nessuno: non mi riconosco in una particolare "scuola", in un particolare filone, anche se spesso la critica (penso in particolare a Macrì) ha creduto di poter accostare il mio nome all'ermetismo fiorentino; non mi sento di rifiutare ma neanche di sottoscrivere pienamente questa attribuzione. Ci sono certamente delle voci elettive con cui mi sento in comunicazione al di là del limite spazio-temporale (alcune sono state indicate da Luzi o da Barberi Squarotti): potrei citare i nomi di Emily Dickinson o di Simone Weil che è una poetessa-filosofa, una grande pensatrice, e poi Dante, il barocco europeo e la musica barocca, e poi soprattutto gli elisabettiani, Donne, Vaughan, Herbert che anche ho tradotto - e anche la tradizione platonica, l'alchimia, i testi biblici ed evangelico-gnostici, il misticismo medievale, la tradizione buddista e taoista, quella indù del Vedanta; che però non sono in realtà testi poetici nel senso stretto della parola, nel senso limitato di "lirico" che si dà correntemente a questo termine. Poi nel nostro Novecento - oltre alla tradizione simbolista europea - i nomi che ho più presenti sono quelli di Rebora, Onofri, Betocchi, Luzi, la Guidacci, per la qualità direi più intensamente testimoniale, religiosa, nel senso che prima dicevo. 

 

  Bene; dopo Concordanze? 

  Dopo Concordanze ho in preparazione il quarto volume di poesie, che si chiama Meridiana e uscirà ad anno nuovo; un volume per la verità molto più nutrito del precedente, e che segna anche una svolta, perché porta all'interno dell'espressività molto verticale di Concordanze una più ampia orchestrazione di voci, di temi-personaggio, anche nel senso teatrale della parola. Spero che il volume non solo abbia una buona accoglienza, ma che porti un contributo non formale ma sostanziale al panorama della poesia contemporanea. 

 

  Bene, quindi dopo Concordanze un'altra raccolta, e, speriamo, un altro premio. 

 

                                                                      Intervista andata in onda

                                                                      nei notiziari TVL del 15 ottobre 1986

 

 

 

 

 

Incontro con Maura Del Serra 

 

       Abbiamo chiesto a Maura Del Serra, che associa al suo lavoro poetico una consistente attività critica, qual è secondo lei la funzione della poesia nella società contemporanea. Ha risposto: 

       Nella società attuale, minacciata da una forma di barbarie tecnologica e da un nuovo analfabetismo interiore, la poesia, per essere davvero tale, deve tornare ad assolvere coscientemente la sua funzione di sempre, che è quella di traduzione, di "ponte" attivo fra tempo ed eterno, divino ed umano, storia e natura, coscienza e mondo, ovvero di scienza sperimentale dell'invisibile che fonda ed esprime il visibile, la superficie variegata dell'esistenza e dell'esperienza; deve cioè ritrovare la propria funzione testimoniale, agonica, non nel senso di una arroganza dell'intelligenza, ma in quello di un quotidiano e non chiassoso poiein che combatta per farsi paradigma, anche minimo, di verità, e per farsi quindi lingua universale dell'anima, contro le superstizioni, gli idoli ideologici, i razzismi, che dividono la mente degli uomini dal loro cuore. La parola poetica deve combattere per essere luce della realtà, per "non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere", come suona la celebre formula di Spinoza che dà il titolo ad una mia poesia inclusa in Meridiana. Al di là degli estetismi e dei demiurgismi di eredità romantica (che sono in fondo la nostra "cultura dello scacco") la poesia deve ritrovare la propria misura, umile e totale, di respiro della vita, alla quale deve sempre metter capo. Insomma, non il barocco mondo-libro di Mallarmé e di Borges, ma il libro-mondo vivente, non inventariabile ma conoscibile con la mente del cuore. 

 

  E quali potrebbero essere, a suo parere, gli autori e i testi poetici che assolvono a questa funzione, diciamo, "religiosa"? 

       È difficile non dare risposte soggettive, proiettive, a questa domanda pur fondamentale; ognuno ha la sua via privilegiata e i suoi compagni di strada nel suo viaggio, nella sua odissea interiore, ognuno ha i suoi "maestri", che possono benissimo essere autori e testi comunemente considerati di secondo o terzo ordine, misconosciuti o addirittura oscuri: l'unica lingua ha dialetti infiniti, tanti quanti sono gli esseri. Tuttavia, per quel che riguarda la mia esperienza, posso dire che gli autori-guida restano i classici della nostra koiné (Platone, Dante, Shakespeare, Goethe, ecc.: i grandi mediatori creativi fra le idee e il mondo): includendo ormai in questo concetto anche le grandi espressioni delle tradizioni orientali, che, come sempre alle origini, coincidono con la poeisa e la letteratura: quindi la Bibbia e i Vangeli, ma anche lo gnosticismo, il buddismo e l'induismo, il taoismo ecc. Ma, come dicevo, si può trovare luce e sostegno intellettuale e morale in opere antiche o contemporanee anche meno totali, più modeste, purché contengano il presupposto della poesia come verità, cioè il ritrovamento del "patto originario fra lo spirito e il mondo" come diceva Simone Weil. 

 

 Quali sono in particolare gli autori, anche moderni, che sente più vicini? 

       Credo di aver già dato qualche indicazione attraverso la risposta precedente: oltre agli autori e alle tradizioni che ho citato e al di là dello schermo della "contemoporaneità" che sento abbastanza illusorio (non si è contemporanei della propria epoca ma di tutti gli uomini, in qualunque civiltà e periodo storico vissuti, che sono nella nostra stessa posizione, al nostro "punto" interiore) – posso dire che sento vicini gli stilnovisti, i sufi persiani (che sono in buona parte ispiratori dei primi) e fra loro i poeti Rumi e Attar, San Juan de la Cruz, il Tasso, i "poeti metafisici" inglesi, in particolare Donne, Herbert e Vaughan, ma anche Hölderlin, Emily Dickinson, Hopkins, Leopardi, Michelstaedter, il miglior Onofri e Rebora: insomma gli esponenti della poesia come "mania dell'eterno" (secondo la celebre e un po' autoironica espressione di Rebora) piuttosto che come letteratura, "mestiere" forzatamente incline alla menzogna e al fittizio. Ma scintille vive di questa "mania" sono presenti anche, ad esempio, nei romantici inglesi e francesi, nei simbolisti russi, in Melville, in Rilke, in Eliot o negli espressionisti tedeschi... Resta da vedere quanto e come questo folto manipolo di amici-maestri o di "affini" abbiano agito o agiscano tuttora nei miei versi. 

 

  In quale rapporto si trovano la sua attività poetica e il suo lavoro critico? 

       La critica, come attesta il suo etimo, istituisce con gli autori un rapporto fondato sul giudizio analitico, anche se alla base di questo c'è sempre a sua volta un rispecchiamento (il famoso problema dell'"artifex additus artifici") una componente di empatia, di affinità elettiva, di corrispondenza anche dialettica; la poesia è una attività più diretta e totalizzante, perché è fondata sulla parola-cosa (non per nulla, in ebraico, davar ha entrambi i significati): ma, in quanto tale, è anche più rischiosa, più verticalmente esposta alle illusioni e ai naufragi, anche se, al suo meglio, è sempre universale, impersonale, corale. Il rapporto fra il critico e il poeta è, diciamo, quello fra il regista e l'attore impegnati in uno stesso testo, o, se si vuole, quello fra lo scriba e il profeta (che poteva e può anche essere un falso profeta!). 

 

  In quale misura ritiene che i critici che si sono occupati della sua poesia ne abbiano colto i temi e gli aspetti fondamentali? 

       È difficile e un po' imbarazzante rispondere; non sta al poeta giudicare i suoi lettori-giudici, ed è giusto che ogni critico privilegi la sua chiave di lettura, estraendo il suo "sapore" personale dal testo, che vive anche di queste rifrazioni, così come un cristallo vive dei colori che se ne fanno sprigionare muovendolo. Finora la critica che mi ha riguardato ha evidenziato da varie angolazioni e con vari strumenti le componenti conoscitive e religiose della mia poesia (Luzi, Barberi Squarotti, Carifi, Valli, Gerola: questi ultimi con più attenzione ai dati stilistici e formali): permane, mi sembra, un certo disagio della critica letteraria di fronte alla meta-letterarietà di gran parte (per me la parte essenziale) della mia ricerca: di qui l'insistenza di taluni critici nel ricondurre un po' forzatamente la mia poesia nelle coordinate ristrette del panorama postermetico nazionale, alle quali sinceramente non mi sembra corrispondere, o corrispondere solo in minima parte; si tratta di abitudini a prospettive regionali e di clan, che il tempo, spero, correggerà e "aprirà". 

 

  Che cosa significa per lei tradurre testi poetici e qual è il criterio che ha ispirato la scelta degli autori da Lei tradotti? 

       La poesia, come accennavo, è sempre una traduzione, una mediazione fra linguaggi (fra "codici", come dice legalisticamente la linguistica): il linguaggio dell'invisibile, quello del visibile in cui il primo si proietta costituendo il reale, il linguaggio dell'io e dell'anima individuale, e infine il linguaggio denotativo, "basic", ovvero la lingua comune di cui il poeta si serve come materia prima del suo lavoro, paragonabile alla trasmutazione alchemica. La traduzione da altri poeti (la più naturale per un poeta) è finora la sola che ho affrontato per intima necessità, e perciò con gioia; è quindi una ulteriore traduzione, un filtro conoscitivo transitivo (un dono) e insieme una sorta di sfida cavalleresca, di duello fra amici-rivali in nome della dama (Bellezza o Verità o Realtà che dir si voglia). 

 

  Sappiamo che ha terminato di scrivere un dramma in versi, La fonte ardente, ispirato alla figura di Simone Weil. Come è nato questo suo ultimo lavoro e quali sono i suoi caratteri? 

   Il dramma è nato da un'accensione, da una sintesi lirica del mio lungo rapporto di ammirata frequentazione, diciamo pure di devozione, nei confronti di Simone Weil, del suo pensiero filosofico-religioso integrale, radicale in senso etimologico, che è tutt'uno col suo "farsi ultima" nel servizio sociale e col suo slancio verso l'Assoluto, attuato quotidianamente dentro e al di sopra dell'ambiente di origine (la borghesia intellettuale francese e l'insegnamento "stoico" del filosofo Alain), poi l'approfondimento splendido e personalissimo della "source grecque", di Platone e delle matematiche, alla luce degli elementi di religio perennis che danno senso alla tradizione ebraico-cristiana e a quella indù delle Upanishad, fino all'esperienza volontaria nelle officine Renault (il suo battesimo sociale, così anticipatore), alla contrastata adesione alla sinistra e alla Resistenza, e alla morte per consunzione in Inghilterra, nel sanatorio di Ashford. Simone Weil è per me l'esempio più alto raggiunto nell'Occidente moderno della fusione cruciale e cruciata fra mente e cuore, logica "maschile" e mistica "femminile", scienza e fede, in una vera scienza della fede, in una martyría che è esemplare non solo per ogni cristiano, ma per chiunque non voglia essere prigioniero delle forze sociali e di quelle interiori, ma ne cerchi le leggi con ferma dedizione. Tutto questo (e molto altro che di lei si può dire e che solo in parte è stato detto, perché la sua figura di genio-donna ispira una specie di rispettoso sospetto) ho cercato di evocare nel dramma, che mi è nato di getto, in tre mesi, dopo una lunga preparazione (vedi le "voci" che già prendono corpo in Meridiana) servita a dar voce ai personaggi della vita di Simone: la madre, il fratello, le amiche, i compagni di studio e gli operai, Alain, Trotzkij in esilio, gli scrittori Simone De Beauvoir, Joë Bousquet e René Daumal, variamente legati al surrealismo, e infine Monsignor Roncalli, il futuro Papa Giovanni XXIII, allora Nunzio Apostolico a Parigi. Un microcosmo denso, in cui mi sono calata di slancio, con un'empatia che, per quanto lucida, non mi consente per ora di valutare criticamente il risultato; i lettori – e chissà, forse un giorno gli spettatori – giudicheranno di questa mia particolare "traduzione" aggiungo solo che, pur recuperando il verso martelliano (settenario doppio) è l'opera di intenti più antiletterari e più, diciamo, "ecumenici" che ho finora affrontato. 

 

                                                                                          in "Quinta Generazione"

                                                                                          luglio-agosto 1987

 

 

 

 

 

A colloquio con i poeti. Intervista a Maura Del Serra 

 

     Incontro Maura Del Serra nella sua casa a Pistoia. Sono accolto con quella finezza che viene dal lungo affinamento dato dagli studi, dalla docenza universitaria, dalla segreta ricerca del significato del vivere e dello scrivere, dalla tensione del lavoro intorno alla parola. 

     Accetta di dialogare sul proprio essere poeta, benché questa condizione conviva con quella della saggista, della traduttrice, dell'autrice di opere teatrali. Comprende bene la necessità di parlare di sé attraverso il dialogo, cioè di comunicare in modo diverso da quello che caratterizza le comuni interviste. 

 

     Le chiedo dei suoi inizi, del suo scoprirsi poeta, dell'inizio di un'attività e di un rito il cui significato andrà svelandosi lungo gli anni, senza mai giungere all'ultima caduta di quel velo che, appunto, vela le cose. 

     Del Serra: Da quando ho memoria ritrovo questo precoce cercarmi attraverso la lingua, man mano che l'andavo conoscendo. Era un cercarmi attraverso parole, cadenze, rapporto tra parola scritta e suono. Avevo delle mie lingue immaginarie e dei personaggi immaginari con cui parlavo. Poi ero molto legata a questo tipo di "ascolto", un po' magico. 

 

     Cozzoli: Sì, capisco. So tuttavia che ci sono per i poeti due diversi inizi: una è quello cui lei ha fatto cenno, legato all'infanzia o alla prima adolescenza, istintivo e magico; l'altro, che segna il vero inizio e mette in gioco la responsabilità del poeta verso sé e verso gli altri, si colloca in un'età più adulta: e più critica. Così è stato anche per lei? 

     Del Serra: Sì, direi verso i venticinque anni. Ho avuto una crisi personale, un forte trauma e da questo ho maturato una coscienza diversa, più matura della vocazione. 

 

     Cozzoli: C'è qualcosa che può meglio definire questa nuova coscienza, magari verso la coscienza formale, oppure verso un più esigente confronto con sé? In che senso un poeta "nasce" veramente a se stesso e capisce che non può vivere altrimenti che seguendo la vocazione? Intendo un poeta e non un versificatore. 

     Del Serra: Era proprio come una seconda nascita, una chiamata, come un dover dare la parola al mio essere nel mondo che si rivelava di nuovo, anche con un'intensità dolorosa. Una necessità e non una consolazione di tipo psicologistico. 

 

     Cozzoli: Quando si manifesta questa vocazione, la persona, che sente questa chiamata, ancora non sa verso dove andrà? Oppure intuisce, anche oscuramente, una direzione e, in qualche modo, un fine del proprio essere chiamato alla poesia? 

     Del Serra: Per me è stato così: non sapevo verso dove andavo, però "sapevo", nel senso di un'oscura pienezza interiore. Infatti il libro di versi del '78 si chiamava L'arco e dava il senso di questa tensione, di questo sentirsi proiettati verso una meta. 

 

     Cozzoli: Un po' come la freccia di Apollo, che è anche profetica o, nel caso del poeta, autoprofetica... 

     Del Serra: Il secondo libretto lo chiamai La gloria oscura per esprimere questa posizione, mia personale, di consapevolezza, anche se ignota, verso il "dove" andavo. La parola era il destino, il fatum in senso letterale, con l'Ananke che sta sopra. Veramente le parole come destino nostro. 

 

     Cozzoli: Io ho sperimentato la sensazione di avere come un maestro interiore, un'interiore guida che mi aiutava a riconoscere se una certa cosa era "mia", se questa doveva fare parte della mia esperienza, oppure se la dovevo tralasciare. E questo senza sapere di cosa si trattasse, senza entrare nella diretta conoscenza di questa cosa. Insomma era come se la stessa curiosità fosse guidata da una ben più fondamentale, essenziale curiosità, alla quale non saprei che nome dare. Sapevo con sicurezza che di questa guida e voce avrei potuto e dovuto fidarmi. In realtà solo di questa mi fidavo, intuendo che questa era la sapienza di cui vivevo e per la quale, anche come poeta, vivevo. E questo, non deve apparire strano, non portava alcun disturbo alla normale attività quotidiana. Era normale far convivere l'oscuro e l'illuminato. Dico questo perché trovo anche nella sua produzione un riferimento continuo alla dialettica tra "oscuro" e "luminoso", come se questo "oscuro" fosse più intelligiente del chiaro razionale. 

     Del Serra: Certo, è proprio la dimensione del saper-non-sapendo di san Giovanni della Croce. Anch'io ho questa esperienza del "maestro interiore" (è un'espressione molto bella questa), o del daimon socratico, ma credo che tutti i poeti abbiano questa "voce" che dantescamente "ditta dentro" e induce a seguire quello che dice. A volte è anche una senzazione fisica. Soprattutto quando scrivo per il teatro, ho la sensazione di una presenza dietro le spalle, come un sentirsi guidati, osservati, conosciuti nel senso paolino. 

 

     Cozzoli: Ecco un altro punto su cui conviene soffermarci: la riscoperta dell'interiorità, dopo tanto sociologismo. Spesso però questa interiorità soffre anche a causa di un certo psicologismo (freudiano, junghiano o hilmaniano che sia). A me invece pare che ci siano segni nuovi, conseguenti al rinnovamento della spiritualità, o meglio, segni che lasciano intravedere un ritorno dello spirito proprio come realtà, spirito che non coincide con l'anima intesa psicologicamente. È un discorso antropologico questo: l'uomo è corpo-mente o corpo-anima-spirito? Lungo il corso dei secoli e dei millenni anima e spirito non sono mai stati coincidenti. Il discorso coinvolge anche i poeti di questo nostro tempo. Trova? 

     Del Serra: Sì, è importante! In un tempo in cui si parla tanto di globalizzazione, in senso molto estrinseco, non si sente ancora il bisogno di un'equivalenza interiore, di una rinnovata coscienza cosmica. Quindi c'è un fondo da recuperare nel senso della vis poetica, della dynamis, dell'energia, della creazione continua. Bisogna essere inseriti in questo ciclo cosmico, in questo moto dantescamente riferito al Motore Immobile (che è Dio). 

 

     Cozzoli: Se questa è la direzione della storia attuale, quale è allora l'importanza della poesia in questo contesto? 

     Del Serra: Io credo che la poesia possa tornare ad essere un ascolto delle radici ed anche tornare ad essere una "scienza della traduzione", in senso filosofico e metafisico, una scienza-ponte, un attraversare "soglie". 

 

     Cozzoli: Vorrei ora rivolgerle una domanda su qualcosa che più personalmente coinvolge i poeti e che riguarda la genesi dei suoi testi, il come nascono. Su questo tema i poeti, anche quelli da me ascoltati, testimoniano in modo diverso circa le fenomenologie, cioè quello che accade loro. Se si sente, potrebbe anche accennare al costo umano della creazione. 

     Del Serra: Per me può essere una combinazione dei vari momenti sottolineati da ciascun poeta. Posso dire, però che c'è una visitazione iniziale, del daimon o dell'angelo. Nel mio caso però (e lo dice con un sorriso) non si manifesta con sudori o calori o stranezze particolari. Non c'è niente di spettacolare; c'è questa "voce" interiore che parte, che comincia a "parlare" con un verso, con una immagine. È come un suono-luce. Il primo verso, come si dice, è dato dal dio, poi subentra il mestiere. Al miracolo, come diceva Ungaretti, subentra il mestiere, a partire dall'ascolto attento della voce e delle immagini simboliche che discendono dalla prima. Questi "pezzi" devono essere messi insieme. Non è detto che l'immagine che si presenta per prima sia la prima del testo, può essere l'ultima. Il poeta "sa" quale è il posto di ogni immagine, di ogni verso, nel testo. 

     Voglio dire però che l'"ascolto attento" deve continuare anche facendo altre cose. Questo lavoro continua anche quando l'attenzion-esteriore è rivolta verso altro. Sì, ci sono i due momenti: l'ispirazione e la tecnica. Ma l'inizio è dono dell'ispirazione, del dio. Se non ci fosse questo, il poeta sarebbe solo un versificatore, un fine letterato, non un vero poeta. Le parole devono essere cariche di anima. Ma, perché questo accada, dobbiamo saper ascoltare. 

 

                                                                              VITTORIO COZZOLI

                                                                               in "Cammino" Periodico mensile

                                                                               n. 3, marzo 2001, pp. 30-32

 

 

 

 

 

Il teatro della coscienza. Dall'icona della Trinità alla "santità umile", da Juana Inés de la Cruz alla Weil 

 

       È una drammaturgia di "archetipi teatrali": ad ogni personaggio corrisponde una figura tradizionale, e questi insieme, in una polifonia, compongono una "scena della coscienza", sempre per dare rappresentazione ad una "catarsi" o a un sacrificio. Di Maura Del Serra esce ora l'Andrej Rubljòv (Le Lettere, pagine 82, lire 15000, con una nota di Ugo Ronfani), dramma in sei scene scritto nell'87-88. Le partizioni accompagnano la crescita della consapevolezza dell'artista, a confronto con personaggi che portano e dibattono altre teorie sull'arte, fino al compimento, la realizzazione dell'icona della Trinità. In un contesto storico di oppressione, la Russia tardomedievale, i dialoghi sono - oltre che con la società del tempo - con un teologo e un altro artista. 

       Ma Maura Del Serra si è occupata anche di altri celebrati percorsi spirituali e sempre attraverso il teatro: "Ho scritto La Minima - dice - sulla fondatrice dell'Ordine delle Minime del Sacro Cuore in occasione della sua beatificazione: era un dramma sulla santità umile. Su Simone Weil, La fonte ardente, in versi, che ripercorre l'itinerario spirituale e vitale della filosofa nella Francia del tempo, un grande affresco dove c'è anche Papa Giovanni XXIII, in veste di nunzio apostolico a Parigi, che ha conosciuto Simone Weil negli scritti e si incontra con la madre di lei nell'epifania finale, dove una voce fuori scena recita un "prologo" di Simone Weil, un testo enigmatico che sancisce l'incontro misterioso tra l'anima e Dio. Ho scritto su Juana Inès de la Cruz nel dramma La Fenice: era chiamata "la fenice del Nuovo Messico", poligrafa dell'ultima età barocca, figura altamente sacrificale dominata dal segno del fuoco, morì curando le consorelle di peste e con un autodafé rinunciò alla brama moderna faustiana di conoscenza. Nel dramma Juana Inés de la Cruz muore nel fuoco di una capanna, in ascesi".

       "Scrivo sempre - spiega Maura Del Serra - di un cammino catartico. La mia vuole essere una scena della coscienza, della visione, un teatro dello spirito. Con Agnodice invece ho messo in scena una donna medico di età ellenistica, che si traveste da uomo e va ad Atene per esercitare, e provoca equivoci: qui mi sono riferita al teatro classico e plautino. È un lavoro polifonico, che nasce da orchestrazione di voci e personaggi, compone comico e drammatico. I miei personaggi - riflette la scrittrice - hanno valenze mitiche. Come nel simbolismo della croce si mira a compenetrare gli opposti di mito e storia, idillio e tragedia, maschera e volto, oppressione sociale e libertà creatrice dell'individuo. L'Andrej Rubljòv è un dramma con una componente ludica, comica, storica, attraverso le figure del mercante e del buffone. E Rubljòv è portavoce delle esigenze dell'incarnazione. Il mio è un teatro di archetipi". 

 

       Sempre tra sacro e arte: perché questa scelta? 

       È una vocazione. L'arte è sempre sacra. Nel Rubljòv, l'arte figurativa, nel monologo Kass, sulla Mansfield, quella letteraria, in un altro monologo su Nijinsky quella della danza. Per me Nijinsky era una figura cristologica, ha vissuto nella carne il conflitto tra assoluto e relativo, tra maschera e volto. C'è un contrasto tra il Nijinsky dei balletti russi e il Nijinsky di Dio: e queste sono sue espressioni. 

 

       In Rubljòv il contrasto, il contraddittorio, è con un teologo e con un altro artista sui "modelli" di arte. Perché? 

       Per un elemento dialettico, agonico. La croce è un incrocio di opposti, ed è sempre presente. È una dialettica che mira a dire le voci della coscienza. Detti e contraddetti che tendono ad una sintesi, a una catarsi, alla risoluzione dei contrari in un finale che è sempre abbastanza aperto, una risoluzione che può essere offertoriale. 

 

       Perché offertoriale? 

       Come in una catarsi c'è l'elemento del sacro, della religione, di una "religio" del cuore e della mente, che l'eroe, l'eroina additano sempre, per una giustizia della spirito che riscatti la storia. Nel Rubljòv è il finale con una catarsi visionaria su un piano interiore, una epifania di arte e sacro. 

 

       Lei fa discutere Rubljòv con un teologo di formalismi bizantini e del rapporto dell'arte e dell'artista con il popolo e con i dogmi della Chiesa. A suo parere sono questioni che restano valide oggi? 

       Su un piano universale sì, traducendo l'ortodossia conservatrice e le esigenze interiori dell'artista. Anche se oggi il rapporto è più fluido che nel tempo di Rubljòv. Se non c'è la Chiesa, c'è il rapporto con l'ecclesia interiore, con i dogmi. L'artista è teso - lo dice Simone Weil - a rintracciare il patto originario tra lo spirito e il mondo. È sempre la tensione tra dogmi rivelati o interiori e le esigenze individuali. 

 

       E in questo dov'è raggiunta l'armonia? 

       Viene dal contrasto, da canto e discanto che si compongono infine in un dialogo. Con Dante dico: "Diverse voci fanno dolci note": è come nella polifonia rinascimentale. 

 

       Maura Del Serra per i suoi lavori teatrali svolge un lavoro di documentazione ?: "Leggo per l'inquadramento del periodo storico: saggi sui costumi, i vestiti dell'epoca, sulla politica e, se ci sono, i libri scritti dai personaggi storici. Mi ispiro anche per l'espressione linguistica, per tentare di ricreare l'epoca attraverso il linguaggio: ellenistico o barocco, dell'Europa degli anni Trenta o della antica Russia...". 

 

       Maura Del Serra è anche poeta, insegna letteratura italiana moderna e contemporanea a Firenze ed è traduttrice da più lingue. Perché, dagli anni Ottanta, la scelta del Teatro? 

       Mi considero poeta e continuo a pubblicare poesie. Ma il teatro è una forma orchestrale di poesia. La lirica è voce sola o quartetto, il teatro una sinfonia che offre possibilità più ricche. Le voci interiori della poesia hanno assunto una forma teatrale. Poesia e teatro sono forme complementari e parallele ma sono sempre musica, monodia e coralità. 

 

       Come traduttrice ha lavorato su autori di molte lingue diverse... 

       Shakespeare, Herbert, Thompson, Woolf, Mansfield, Parker, Lawrence, Hamburger dall'inglese, per il francese voglio citare Proust e Simone Weil, per il tedesco Else Lasker-Schüler... Per me la traduzione è complementare, uno specchio, bisogna creare una terza lingua, che non è né dello scrittore né mia. Anche qui c'è una scena, una rifrazione... Si dà voce a un'altra lingua, è sempre un'incarnazione. Ho continuato gli studi di italianistica, su Campana, Betocchi, Penna, Pasolini, ma penso che la letteratura italiana abbia senso se inserita in un contesto europeo... Anche Margherita Guidacci, di cui ho raccolto Tutte le poesie, sempre per Le Lettere, recentemente, era traduttrice per l'inglese e lo spagnolo... è congenere al poeta la dimensione sovranazionale, per una ricerca delle affinità elettive. 

 

                                                                                Pierangela Rossi 

                                                                                "Avvenire" (Agorà)

                                                                                20 giugno 2000

 

 

 

 

 

Natale 2001. Intervista rilasciata a TVL 

 

       Siamo qui con la professoressa anzi con la poetessa Maura Del Serra. Natale e poesia: oggi è il tempo in cui in questo mondo occidentale e razionalistico abbiamo più bisogno di poesia perché non riusciamo a spiegare gli eventi solo con la razionalità... 

       Certamente: la poesia “serve” quanto serve la vita stessa, e nella doppia accezione del verbo (anche una mia poesia è intitolata Servire). La poesia deve servire la vita, così come la vita “va a servire la poesia” perché ne è colma: al di la del dolore, dei problemi, delle incompiutezze e insufficienze della condizione umana, le radici della vita sono nella poesia e viceversa: sono madre e figlia che spesso si scambiano i ruoli, e oggi più che mai è necessaria questa simbiosi. 

 

       La poesia ci aiuta a leggere l'evento del Natale: oggi siamo obbligati ad essere meno distratti, perché gli eventi ci hanno costretti a tornare dentro di noi. L'evento del Natale va forse letto più col cuore e con la poesia che con la razionalità… 

       Direi con entrambe, perché la ragione non è altro che il cuore salito nella mente, così come la mente del cuore è quella che induce in noi la conoscenza. Del Natale va recuperata la dimensione etimologica di dies Natalis, vissuto come la nascita del Cristo in quanto Sol Oriens negli antichi culti misterici orientali: alla radice dell'inverno, nel colmo del buio, nasce questa nuova presenza del sacro che è l'anno nuovo ed è il Verbo incarnato… Oggi perciò è importante interiorizzare il Natale, recuperare questa radice profonda al di là di tutti i consumismi, di tutti gli stereotipi personali e tribali costrittivi, farne un evento interiore in senso spirituale e cosmico; “globalizzare” sì il Natale, ma nel senso di universalizzare la scienza della gioia che esso può portare. 

 

       E tuttavia oggi il Natale sembra dividere, perché è un punto discriminante della storia, una pietra angolare che è stata scartata, e dove manca questa pietra fondante si sente l'incapacità di trovare risposte. Certo il terrorismo va combattuto, però viene combattuto con la guerra… In un punto fondamentalle del mondo, la Terra Santa, ebrei e mussulmani sono in un contrasto irrazionale che non è solo motivato da qualche metro di terra; d'altra parte l'Islam non conosce Gesù nella nostra accezione: ci sono molti motivi di riflessione… 

       Sì, sono problemi molto complessi che al di là del piano socio-politico incidono nella quotidianità di ognuno di noi, ma che è difficile affrontare proprio nel vissuto quotidiano, perché oggi più che mai si ha un senso di impotenza, per cui pare che le grandi decisioni vengano prese al di sopra di noi, a livello planetario sì, ma nel senso massificato del termine: invece è importante risentirsi alle radici del sacro, dell'anno, di questa pietra angolare della storia che è il seme stesso della renovatio da portare dentro ciascuno e nelle comunità, al di là di tutti i fondamentalismi e gli integralismi che provengono dalla mente, in particolare da quella occidentale costruita sui dualismi (bianco-nero, buono-cattivo, giusto-ingiusto…). La dialettica non va certo annullata ma integrata su un piano superiore, da un alto che inglobi anche il profondo che ne è lo specchio: è difficile, ma c'e in tutti questo bisogno dei valori fondamentali, soprattutto da parte dei giovani e degli “uomini di buona volontà”, che è poi il senso di una giustizia che sia anche giustezza e misura interiore: è cosmos, dicevano i greci, che è insieme mondo, ordine e bellezza. La bellezza che salverà il mondo, evocata da Dostojewskij, non è una utopia, ma una scienza che va costruita dentro di noi e portata poi nel sociale, su scala insieme creaturale e civile. Questo vale la pena di fare, a Natale e tutto l'anno. 

 

       Il recupero di questa dimensione interiore è allora un modo per comunicare con chi sembra avere pensieri diversi, come l'Islam: è questo il modo di porgersi senza annullarsi? 

       Certamente! Se pensiamo alla ricchezza di interazioni fra tutte le culture, in questo caso dell'Islam che ci è sotto gli occhi – alla ricchezza di interazioni fra l'Islam e la nostra civiltà greco latina e medioevale, se pensiamo ad esempio che tra le fonti della Divina Commedia c'è il Libro della Scala che descrive l'ascensione di Maometto al terzo cielo; se pensiamo all'opera di paziente trascrizione dei nostri codici letterari e filosofici nell'Islam medievale, vediamo che le radici dei nostri classici appartengono anche all'Islam e viceversa, attraverso l'aristotelismo ed il neoplatonismo, sentiamo che non è possibile che tutto questo vada perduto sul piano meramente sociopolitico, nel regno della forza, come dice Simone Weil. Bisogna preservare questa ricchezza e perseguire con paziente costanza un linguaggio comune, che pure esiste perché in Europa tutti i dialetti culturali sono dialetti di un'unica lingua: va trovato un esperanto culturale, qualcosa di più dell'inglese. 

 

       Mi pare che da parte della poetessa gli auguri siano improntati senz'altro alla speranza, vorrei dire all'ottimismo, certo alla fiducia… 

       Sì, un ottimismo vigile e critico, perché i problemi sono molti e gravi, in questo momento storico: ma non bisogna mai dimenticare che la storia non è fine a se stessa, una ruota insensata che gira, la ruota della Fortuna di dantesca memoria che “volve sua spera e beata si gode” e al di là della quale non c'è nulla. La storia va misurata sulla metastoria dentro e sopra di noi, sulla scala dell'ordine cosmico e interiore. Questo processo semplice e complesso insieme è da costruire ogni giorno, al di la di tutte le barriere politiche, sociali e culturali. La civiltà in cui viviamo è molto frastornata dall'informazione, dal bombardamento globale di tutto ciò che sembra di dover sapere: si perde così la scienza dell'ascolto, che è molto importante per percepire al di là dei rumori di guerra e di violenza un a musica, un'armonia cosmica che si costruisce, ma che insieme si percepisce e si ascolta. Credo che questo sia il desiderio di tutti i popoli. 

 

                                                                                    Intervista rilasciata a Luigi Bardelli e trasmessa

                                                                                    durante le festività 2001/2002

 

 

 

 

 

Maura Del Serra: "Rileggetela, è la nostra Virginia Woolf" 

 

"È stata la nostra Virginia Woolf, la nostra Katherine Mansfield, la nostra Colette, di pari valore. Se si leggono loro, allora val la pena di leggere e rileggere anche la Manzini". Con pacata ma convinta fermezza la poetessa Maura Del Serra, docente di letterature comparate all'università di Firenze, parla di Gianna Manzini che definisce senz'altro "grande scrittrice europea".

 

Un giudizio impegnativo...

Ma non esagerato. Intanto perché Manzini assimilò profondamente la lezione di "Solaria", la rivista fiorentina che proseguì l'opera della "Voce" rappresentando l'ultimo guizzo dell'avanguardia in Italia prima del buio fascista. Spesso si dimentica che fu "Solaria" la prima in Italia a pubblicare la Woolf, Proust, Steinbeck... Anche Manzini, come la Woolf, vedeva "nell'involucro luminoso" e "semitrasparente che avvolge le cose del mondo"; anche Manzini, come la Mansfield, era capace di farsi "più mela della mela, più anatra dell'anatra" e anche nella sua scrittura si avverte quel "trasmigrare occulto" cioè la capacità di calarsi negli oggetti, nelle creature umili, negli animali, nelle situazioni del mondo, nelle sfaccettature della vita e della coscienza.

 

Scrittura ermetica quella della Manzini?

Al contrario. Fu parte coerente del modernismo e dello stream of consciousness (flusso di coscienza) della grande narrativa europea di quel periodo.

 

Ebbe estimatori illustri...

La elogiò Gianfranco Contini e si sa quanto Contini fosse esigente e avaro di complimenti. Gadda già nel '32 parlò per lei di "animismo concettuale"; e poi Emilio Cecchi, Giuseppe De Robertis, Carlo Bo, Piero Bigongiari, Geno Pampaloni, Domenico Porzio, Claudio Marabini, Giancarlo Vigorelli... tutti ebbero parole di consenso e di stima.

 

Alla figura del padre è dedicato il libro forse più famoso della Manzini...

Tutta la sua vita fu una lunga ricerca del padre al quale la legava un rapporto profondo, segreto, forse un po' mitizzato. E negli uomini della sua vita cercò forse inconsciamente il padre perduto... E anche il lavoro del padre (orologiaio in via degli Orafi, ndr.) è parente del suo di scrittrice per quella geometrica dedizione fondata sulla pazienza dello stile e del tempo? Non era anche Spinoza un molatore di lenti?

                                                                                             Cesare Sartori

                                                                                             "La Nazione"

                                                                                             28 marzo 2004, p. IX

 

 

 

 

 

INTERVISTA A MAURA DEL SERRA

Maura Del Serra studiosa, donna di fede, che studia Margherita Guidacci poetessa religiosa. Come ha iniziato i suoi studi a riguardo? Cosa l'ha spinta a scegliere Guidacci?

Credo di potermi definire "donna di fede" in senso lato, ecumenico, unanimistico, non confessionale né dogmatico: fede nella parola poetica come dono e mimesi del Logos che anima la creazione continua. Non ho propriamente "scelto", in senso intellettuale, di "studiare" la Guidacci: piuttosto, nella mia ricerca di maestri e di stelle polari spirituali ed espressive, la Guidacci mi ha attratto fin dalla prima giovinezza per esemplare affinità elettiva, nella sua dignitas espressiva così altamente scolpita ed anti-ideologica, metatemporale ma non anti-storica (anzi, sempre testimoniale, "solitaire et solidale", come diceva Camus). Così, posso dire piuttosto - come, in altro modo, mi avvenne per Campana e per Rebora in ambito italiano - di essermi "sentita scelta" per ascoltare quella Sibilla leopardianamente "fisica e metafisica", classica e cristiana, non "superba" nel senso moderno in cui un po' ironicamente la definiva Giuseppe De Robertis, ma nel senso dantesco di "umilmente superba", di oracolo dell'anima.

 

Nella sua approfondita introduzione al volume che raccoglie tutte le poesie di Margherita Guidacci (Poesie, Le Lettere, 1999), lascia molto spazio, attraverso ampie citazioni, alla voce della poetessa. È una scelta ben precisa la sua?

È stata una scelta necessitante in senso critico-filologico, un dar corpo biografico e dichiarativo alla voce della Guidacci-poeta, che altrimenti sarebbe rimasta etimologicamente "assoluta", scollegata dal suo iter formativo ed esistenziale. Quando uscì il volume, inoltre, non era stato ancora pubblicato il volumetto delle Prose e interviste a cura della mia allieva Ilaria Rabatti, e perciò le citazioni e le dichiarazioni dirette dell'autrice erano essenziali perché il lettore mettesse a fuoco il rapporto simbiotico fra vita e opere in un poeta così accentuatamente "antipersonaggio", così refrattaria al protagonismo e al narcisismo mediatico, così "voce sola" appunto, così "ingovernabile", come lei definiva se stessa nella sua giovinezza anti-ermetica, e come sempre rimase nei confronti delle consorterie letterarie, pagandone il prezzo in solitudine e in persistente erranza editoriale, nonché in una fama (che definirei carsica piuttosto che elitaria) di poetessa cattolico-impegnata (oggi diremmo di "teodem"). Ma non c'è in lei - né può essserci in nessun vero poeta - alcuna dogmatica acquiescenza, bensì la fedeltà all'"inquietudine" (parola a lei cara) nella ricerca della bellezza come verità, e della verità come giustizia, in una sorta di pitagorismo evangelico.

 

Leggendo La sabbia e l'Angelo, Giorno dei Santi, Inno alla gioia, ma anche Neurosuite, mi pare di riconoscere una affinità emotiva fra meditazione, preghiera e poesia. Cosa ne pensa?

In conseguenza di ciò che ho detto prima, in queste raccolte (e in tutta la sua opera) "meditazione, preghiera e poesia" sono inscindibili non solo emotivamente ma spiritualmente ed intellettualmente: del resto, la vera poesia è sempre una sorta o forma di preghiera (anche nelle sue espressioni rovesciate e "maledette") in quanto parola che pronuncia la sacralità della creazione e dell'esistenza, dell'"esserci".

 

Ancora nell'Introduzione a Le Poesie, viene dato molto spazio alle traduzioni di Margherita Guidacci e alla naturale influenza che Dickinson, Eliot, Donne ebbero su di lei. Cosa può dirmi ancora a riguardo?

La traduzione è sempre una sorta di "ponte" formativo e radicante, un esercizio spirituale e formale, un servizio di ascolto dialogante basato sulle affinità elettive: nel caso della Dickinson e di Eliot, tale dialogo-discepolato è stato precoce e costante nella Guidacci, dal soggiorno in Inghilterrra nel '47 fino agli Studi su Eliot del '75. Nel caso di Donne e dei metafisici seicenteschi, l'imprinting è meno appariscente ma non meno profondo (del resto i metafisici inglesi sono una fonte imprescindibile della Dickinson e parte fondante del canone della poesia occidentale stabilito da Eliot negli anni Venti): sono, insomma, una sorta di "trinità" dell'anglocentrismo guidacciano che - pur integrato poi da altri incontri e costellazioni (slava, ispanica, orientale ecc.) - rimase la sua stella polare.

Il buio e lo splendore e Anelli del tempo trovano ampio spazio nella sua analisi; motivi neoplatonici-cristiani e mariani sono a suo avviso il filo conduttore di queste raccolte. Qual è, a suo avviso, l'eredità lasciata da Margherita Guidacci?

Più che di "eredità" parlerei di esemplarità alta e solitaria - nel senso "polare" di cui dicevo - nel caso della Guidacci testamentaria del fondamentale Il buio e lo splendore e del pur imperfetto e discontinuo - perché privo del labor limae sottratto alla Guidacci dall'imminenza della morte - Anelli del tempo. La sintesi, o meglio la sinergia fra motivi platonico-cristiani e mariani raggiunta nel Buio e lo splendore è un lascito ideale diretto in forma di dono cosmico e destinale "all'ipotetico lettore" dell'omonima, tenera poesia di Anelli del tempo. In poesia non c'è - se non per gli epigoni - una trasmissione lineare in senso generazionale, ma un'eredità appunto elettiva, vocazionale, come quella dell'antico messaggio in bottiglia.

 

C'è una raccolta in particolare a cui sono legate sue emozioni, suoi ricordi personali?

Ce ne sono due: una è la raccolta delle Poesie 1965, che, vista nella vetrina di un libraio pistoiese, letteralmente "mi chiamò" e mi folgorò nella prima giovinezza, e che conservo gelosamente a mo' del predetto messaggio in bottiglia; l'altra è la plaquette Taccuino slavo del '76, di cui la Guidacci mi fece dono con dedica nel 1985, quando vinsi il premio "Ceppo-proposte" della cui giuria lei faceva parte (una quasi reverenziale timidezza ancora giovanile, e la riservatezza di lei, mi impedirono allora di approfondire il colloquio, ma conservo alcune lettere successive, vergate a grandi caratteri per le sue difficoltá visive e di salute).

 

Luzi, nella nota introduttiva a La Fenice, la descrive come una scrittrice che "ha una virtù speciale nell'attingere all'energia operativa della lingua senza adulterarne quella meditativa". Le riconosce linearità, limpidezza, lucidità, un po' come Margherita Guidacci. Sente questa affinità di stile?

La "linearità, limpidezza, lucidità" che Luzi riconosceva nella mia Fenice si riferivano all'impianto strutturale del dramma, centrato su una protagonista assoluta dal destino tragico e perciò da lui definito "lineare come una dimostrazione", mentre il linguaggio, teso a ricreare con moderna ed intima mimesi un barocco ideale, ricco di antinomie e di problematiche psicologico-spirituali e sociali, era necessariamente più complesso, più eloquente, anche se - credo - non oratorio. La Guidacci non ha una produzione drammaturgica (a parte l'oratorio monologante Morte del ricco) e perciò la mia affinità con lei non è tanto espressivo-stilistica quanto elettiva, di fonti e di visione del mondo, di "Sibilla materna" direi, le cui "foglie" sono parte costitutiva del mio libro interiore.

 

Qual è oggi il panorama della poesia, come lo descriverebbe? E della poesia religiosa?

Mi è quasi impossibile rispondere a questa domanda, data la mancanza di distanza storico-critica dalle esperienze poetiche in corso, che mi sembrano, in generale, assai disomogenee (il che è poi naturale, dato che il criterio generazionale ha, come dicevo, valore assai relativo): la tendenza dominante è quella ironico-minimalista (postmoderna, come si usa dire per l'arte figurativa) ma non mancano opposte voci tragico-mitizzanti, neo-sperimentali ecc. Non mi sembra infine lecito distinguere la "poesia religiosa" dalla poesia tout court (o "laica"?): come dicevo, la poesia degna di questo nome è sempre, etimologicamente, una religio, un ponte fra visibile e invisibile, qualunque ne siano la forma e le tematiche: per riprendere il paragone figurativo, le bottiglie di Morandi e le mele di Cézanne non sono meno "sacrali" delle figure archetipiche di Piero della Francesca. La religiosità non è legata a temi e a contenuti devozionali, ma alla qualità fedele dell'ascolto, da parte del poeta-medium (etimologico), di ciò che dantescamente "ditta dentro".

                                                                                           Intervista rilasciata a Donatella Di Russo                                                                                                 per la sua tesi di laurea su Margherita                                                                                                     Guidacci, discussa nell'Università di Roma                                                                                            "La Sapienza" nella sessione estiva 2008

 

 

Il lavoro impossibile dell'artigiano di parole

Intervista a Maura Del Serra  di Pierluigi Sassetti e Giuseppina Pagliafora, 9 febbraio 2016

Non so perché, ma lei mi intimorisce un poco.

«Spesso incuto soggezione, sa che me lo dicevano anche quando ero ragazzina? Eppure sono geneticamente una timida, un’introversa».

 

Scorrendo tra le sue pagine nel sito Nuovo Rinascimento la cosa che salta subito all’occhio è che il suo lavoro di poetessa e traduttrice è imponente …

«Sì, se pensa a Kavafis e alle sue cento poesie. Diciamo che sono poliedrica; comunque quello che sostanzialmente ricerco è una sola cosa, andare verso la mia origine, la mia sorgente espressiva. Anche Pasolini, di cui stavamo parlando poco fa, cercava questo, no? Un anelito a tornare nel grembo materno e della lingua. Nel caso suo era un grembo tragico, con le ben note scissioni (quelle ideologiche e quelle fra l’eros e l’onestà, come diceva). Però è importante la sua identificazione con la madre, la “madre fanciulla”, e in generale l’elemento materno del poeta che è allo stesso tempo cristologico: un groviglio, nel suo caso, istintivamente e volutamente “eretico”, scandaloso. Per me l’elemento materno è fondamentale, non in senso personale soltanto, ma perché, come diceva Saba, il poeta è sempre madre anche se uomo, perché etimologicamente “comprende”; Saba diceva questo facendo l’esempio del Petrarca, e affermava giustamente che il Petrarca era anche Laura. Questa croce degli opposti credo sia una forma di nutrimento, anche nei termini di maieutica pedagogica, del lavoro che svolgete voi mediante l’educazione».

 

Certo, di lavoro sulla forza soggettiva.

«Cioè scoprire le proprie radici, le proprie linfe, scoprire che la forza umana si nutre di debolezze, quindi è importante sapere come cercare una catarsi per trascenderle, non fingere una forza che non si ha, magari di tipo superuomistico, wagneriano, “falso sublime” come lo chiamo io. Bisogna cercare nelle proprie radici quello che ci nutre, anche se è quello che ci ferisce. Tornando a Pasolini, potrei ricordare quella sua bella espressione “Casa della ragione sorella della pietà”. Questo è il vero cercare: la “casa della ragione”, però che sia una ragione nutrita dalla pietas, altrimenti ritorneremmo ai limiti, alle strettoie ideologiche dell’illuminismo, e mi pare che non abbiamo bisogno di questo, in un’epoca così drammatica per la sua deriva etica, associata all’oltranza tecnologica: questa comunicazione globale, che è anche alienazione, ha bisogno di trovare forme semplici e complesse insieme, ma non complicate, di far scendere la mente nel cuore, come dicevano gli indiani d’America e i mistici di tutte le latitudini. Gli intellettuali in genere fanno il contrario, fanno salire il cuore nella mente, quindi, come si dice, tutto diventa cervellotico. Quello che invece cerchiamo di fare noi, dico un noi molto virgolettato – i poeti, gli artisti, ma anche le persone più impegnate in senso umano – è appunto far scendere la mente nel cuore, pensare con il cuore. Forse è l’unico lavoro degno che si possa fare, attraverso qualunque altro lavoro esteriore».

 

Come si può, da tutto questo, arrivare a tradurre?

«L’elemento base del tradurre, oltre che del fare poesia, lo dice la parola stessa, è un trans-ducere, un gettare ponti da una lingua all’altra, da una concezione del mondo all’altra, quindi è un’operazione teoricamente impossibile, ce lo ha già detto Dante tanti secoli fa nel Convivio: “Nulla cosa per legame mistico armonizzata… si pote in altra lingua transmutare senza perdere tutta sua dolcezza”, ed è vero. Però noi facciamo continuamente questa cosa impossibile, e quello che il lettore legge non è né l’autore né il traduttore, ma è un terzo autore in una terza lingua. Se Lei legge un libro di poesie con il testo a fronte, in realtà legge due poesie spesso molto diverse. Attraverso il traduttore, nei casi meno riusciti, si crea un pasticcio, un fallimento artistico; nei casi di traduzione congeniale, invece, si crea una terza presenza espressiva, come se in un duetto vi fosse una terza voce che le fonde tutte e due. È un’operazione essenzialmente musicale, che si fa per una specie di “medianità”, per vocazione, perché i traduttori purtroppo vengono pagati miseramente (ed è anche difficile definire “quanto” dovrebbero essere pagati). Ci sono delle difficoltà oggettive, intrinseche al tradurre; perciò affinché l’operazione riesca ci deve essere una vera vocazione. Io non ho paura ad usare questa parola tipica del Romanticismo, perché non ce n’è un’altra che possa sostituirla. Non c’è un sinonimo più “moderno”. Margherita Guidacci, di cui ho curato l’edizione di tutte le poesie, è una poetessa che amo molto, ed era una bravissima traduttrice da più lingue, e diceva: “Certi autori sento che mi vogliono” e allora c’è un’empatia, e la cosa riesce. “Se l’autore non mi vuole”, lei si esprimeva così in modo molto semplice, “ci posso provare anche molte volte, lo posso amare molto” – e faceva l’esempio di Keats – “però la traduzione non riesce, ci si sente come respinti. È come sbattere contro un muro”. Ed è una cosa che ho provato anch’io diverse volte, nei tentativi di traduzione da autori che “non mi volevano” (ad esempio Sylvia Plath). Allora bisogna lasciar perdere; ci deve essere un’empatia profonda in cui sommare e fondere questi due elementi che agiscono anche nella poesia in proprio: il miracolo (qui sto citando Ungaretti) e il mestiere; quindi diciamo che deve esserci “l’orecchio assoluto” per sapere come rendere certe forme e creare, nel caso della poesia, una nuova poesia – non una parafrasi, o una prosa, non un rifacimento piatto, magari anche onesto, ma una nuova poesia. E poi il mestiere, ovvero le risorse tecniche e linguistiche che abbiamo. Però se non c’è primariamente questo feeling (che è quello stesso dell’amore e dell’amicizia), tra due voci, tra due mondi interiori, tra due cosmi poetici, intellettuali ed umani, la traduzione non può riuscire, perché è come voler abitare su di un ponte: l’ho scritto in Tentativi di certezzail mio ultimo libro di poesie pubblicate, che ha nel finale una parte aforismatica, di poesie molto brevi».

 

Può capitare che non si riescano a tradurre proprio quegli autori che si amano particolarmente?

«Sì, può capitare, se si amano in maniera troppo viscerale, come nell’amore tra persone; cioè, se è più una passione possessiva che un amore maturo, può capitare che la passione blocchi e non si trovi la forma per esprimere, per traslare, far passare attraverso il ponte linguistico e mentale quello che deve diventare un’altra creatura. Sì, può succedere, certo. Però anche la passione può diventare amore maturo, come tra le persone: se davvero un autore lo si ama e non si è solo infatuati, se lo si ama, poi la passione si decanta come il mosto in vino e allora diventa possibile una buona traduzione.

 

Come ha scoperto questa sua vocazione, quando ha iniziato?

«Con la traduzione? Beh, nel lontano 1985, quando mio marito, che non conosce il tedesco, voleva conoscere Else Lasker Schüler della quale aveva letto, e gli erano piaciute, alcune poesie in un’antologia di poeti espressionisti; questa poetessa così straordinaria, che scriveva in tedesco e diceva di scrivere in ebraico era a sua volta un’ebrea piuttosto eretica. Diceva: “Io non sono ebrea per gli ebrei, ma sono ebrea per Dio”. E scriveva in un tedesco tutto particolare, molto fantasioso. Mi rammento che, vedendo le poche traduzioni italiane esistenti, che erano quelle (nemmeno brutte) della Mandalari, sentii che mancava qualcosa, erano “sedute”, non c’era quella vis, quella energia che in lei è fortissima, un phatos viscerale molto forte, perché è stata legata all’espressionismo, però in modi tutti suoi, fantasiosi, nostalgici e orientaleggianti. Allora provai a buttar giù qualcosa, a tentare una traduzione, ma solo per me e per mio marito: avevo molta riluttanza a pubblicare queste versioni poiché, essendo giovane, temevo le reazioni dei germanisti, quelli del mondo accademico di cui da poco facevo parte, anche se molto indipendente, e di cui ho fatto parte fino a poco tempo fa; in quei settori abbastanza chiusi, non si deve invadere il territorio altrui. Però, devo dire, anche mio marito, mi incoraggiò, mi disse: “Perché no? Vedrai, saranno clementi”. Poi appunto ho realizzato l’antologia Ballate ebraiche e altre poesie, che peraltro mancava perché ce n’era una del 1962 con pochi testi, quella col disco della Proclemer, fatta da Baioni (che successivamente ho conosciuto anche personalmente, e dal quale ho riucevuto i complimenti, in occasione della discussione di una tesi sulla Lasker Schüler avvenuta a Firenze); dopo quella sua versione antologica non ce n’erano state altre, e allora feci questa antologia traducendo l’intero corpus delle Ballate ebraicheed un’ampia scelta dalle altre raccolte per l’editrice Giuntina, e devo dire che il volume ha avuto molto successo, è andato benissimo anche dal punto di vista commerciale. Dieci anni dopo, nel 1995, in occasione di una ristampa, ho modificato alcuni punti della traduzione e ho rifatto l’introduzione, che nella prima versione era un po’ criptica, ed il libro è tuttora in catalogo. Dopo quello dei germanisti sono passata ad “invadere” il territorio degli anglisti e dei francesisti, con qualche sporadica incursione anche fra gli ispanisti, ma ho sempre considerato il lavoro di traduzione com parte integrante del mio lavoro poetico».

 

Sarebbe corretto dire che lei approda alla traduzione partendo dalla poesia?

«Sì, è quel discorso che facevo prima sulla musica, sull’avere orecchio empatico. Non ci si può riuscire facendo solo un lavoro accademico. Ma ci sono dei poeti che io non oserei tradurre perché secondo me sono intraducibili come, in area francese Baudelaire, e in area tedesca, Rilke o Celan che sono stati tradotti diverse volte in modo (specialmente Celan) accademico, e risultano svuotati di aura e di segno, di quel senso tragico che li contraddistingue. In sintesi, per tradurre un poeta ci vuole un altro poeta, e che sia anche sulla stessa lunghezza d’onda. E’ una cosa effettivamente molto complessa, però è come la vita: estremamente complessa e inconcepibile, ma poi nel suo manifestarsi quotidiano è anche semplice, ci si lascia guidare da questa voce primigenia, da questa ispirazione – uso un’altra parolona romantica che non ha sostituti».

 

Questo vale solo per la poesia o anche per la prosa?

«Vale anche per la prosa, anche se il mio orecchio è sempre sintonizzato istintivamente sulla poesia. Ma anche nella prosa si deve ricercare il ritmo, che c’è sempre, e ricrearlo, senza fare un calco della lingua di partenza in quella di arrivo, tenendo conto che l’italiano è appunto, detto tra virgolette, una lingua “pesante”, nobile, petrarchesca, barocca, fronzuta, cioè “lunga”. E di questo, traducendo dall’inglese, bisogna tenerne conto, perché si appesantisce tanto. Risulta più facile tradurre da lingue altrettanto “pesanti” come il tedesco, perché la struttura nella sintassi è quella greco-latina, o dal francese e dallo spagnolo. Con l’inglese invece bisogna fare un salto interiore ed espressivo, camminare un po’ sulla fune; ho trovato questo tipo di difficoltà quando ho affrontato la Woolf. Della Woolf ho tradotto Orlando, Le onde, e Una stanza tutta per sé, il suo manifesto femminista. Ma è soprattutto Le onde ad essere scritto in maniera decisamente musicale, sono sei voci, sei personaggi incarnati da sei voci musicali, un sestetto, e il ritmo nell’inglese è completamente diverso da quello italiano; quindi bisogna trovare una forma musicale italiana che non tradisca, o per meglio dire che tradisca bene, perché bisogna tradire, ma tradire in modo amorevole rispettoso dell’originale. A dirlo così, sembra un groviglio di ossimori, ma l’orecchio, sempre quello, ti guida, e ti guida l’autore (o l’autrice) come un Virgilio. L’autore va anche conosciuto, va studiato. È indispensabile conoscere la vita, la biografia, il background, perché il suo linguaggio è anche quello del suo tempo, quello della sua cerchia sociale e familiare, quindi c’è da tener conto di molti elementi. Però, se c’è l’amore, la passione di base, il consenso reciproco, se l’autore ti accetta, “ti vuole” come specchio, accetta di farsi tradurre, i risultati possono essere buoni. Non sono pienamente contenta delle mie traduzioni, ovviamente tutto è perfettibile, però si tratta di un’esperienza di arricchimento personale, che impone di mettersi al servizio dell’autore; il risultato poi dipende dai molti fattori di cui parlavo sopra. Nella poesia personale può prevalere, e spesso prevale, l’elemento del narcisismo, dell’io lirico, cosa che succede in misura maggiore o minore in tutti i poeti. Si impara molto dai bambini, per come sanno ascoltare e decifrare magicamente anche quello che c’è nei nostri silenzi, nel linguaggio non verbale. La traduzione è qualcosa di analogo, è un lavoro di artigianato, come quello del restauratore che riporta allo splendore i capolavori antichi e trascurati; in fondo il lavoro che fa il traduttore è analogo».

 

Lei è stata anche docente universitario. Come si concilia questa forma di artigianato e l’insegnamento accademico, che è distaccato, sterile, dà gli strumenti ma poi non li collega?

«E’ vero, l’insegnamento accademico tende a fornire degli strumenti non sempre in maniera adeguata al loro uso. A meno che non si tratti di docenti eccezionali, che sono i famosi maestri che noi tutti abbiamo cercato e cerchiamo, che tutti gli studenti cercano, ma sono rari… anch’io li ho molto cercati, ma non ne ho mai trovati in quell’ambiente.. In questo caso bisogna farsi maestri di se stessi. Parlavo prima, citando Ungaretti, delmiracolo e del mestiere. Il mondo accademico lavora solo sul mestiere, tranne rarissime eccezioni. I traduttori migliori, anche se insegnano all’Università, magari fanno altre cose, sono anche scrittori, non sono accademici puri, perché il mondo accademico è sterile, come un laboratorio di analisi mediche. Proprio perché ero una voce fuori dal coro mi sono trovata sempre piuttosto emarginata, il che per me era anche una fortuna perché potevo lavorare per conto mio, potevo fare i miei corsi di poesia e gli studenti mi seguivano davvero con interesse».

 

Un esempio di forza soggettiva…  

 «Sì, cercavo di far capire anche cosa c’è dietro le rime, le cose che magari abitualmente in un corso non vengono prese in considerazione, e lo facevo usando un po’ tutti gli strumenti che anche la critica formalistica può usare, gli strumenti tecnici e la retorica, ma sottolineando la loro caratteristica di strumenti, che non vanno finalizzati a se stessi. Se si disseziona una poesia, come si faceva ai tempi dello strutturalismo, ci rimane solo il cadavere, non c’è più né l’autore né l’opera. Personalmente, pur avendo avuto delle amarezze durante la mia attività in ambito universitario, non me la sono mai presa troppo perché il poeta deve essere pronto a “pagare” per la sua vocazione; non si può avere tutto, in questa e nell’altra dimensione e io ho sempre fatto prevalere l’artigianato. Ovviamente, nell’artigianato vanno impiegate tutte le strutture del mestiere, si tratta sempre di conciliare, di trovare il logos, il dialogo con queste croci di opposti: il caos e l’ordine, l’intellettualismo e l’emotività; bisogna trovare e tessere il filo, la ragione, il logos che abbia in sé anche gli strumenti della pietas, quindi anche l’inconscio – ben venga dunque l’eredità della psicoanalisi, ma senza più il peso ideologico che ha avuto in origine, alleggerita da quel carico un po’ punitivo, per cui se si usciva da quelle forme dogmatiche si era “fuori strada”. Ora, in una società globale (almeno virtualmente, perché poi è sempre dominata dai nazionalismi, dai personalismi, da ferite e incomprensioni linguistiche nel senso interiore (perché le lingue sono mondi) tuttavia abbiamo gli strumenti per superare questi muri. Certo non si può negare che, come sentiva Pasolini, la storia è tragica. Anche Caproni, che era suo amico, scriveva con il suo humour nero: “Fa freddo nella storia. Voglio andarmene”. La violenza che vediamo continuamente all’opera nella storia e nel quotidiano, convive però e si mescola con l’aspirazione umana all’assoluto, quindi il metatemporale e il temporale; c’è sempre e dappertutto questa lotta tra il caos e l’ordine. Io non credo si possa superare questo dualismo, perché la condizione umana, la condizione nostra è costruita sul due (quando dico nostra, voglio dire anche quella degli animali, delle forme di vita complesse): il ritmo del cuore, il ritmo del tamburo, il ritmo primordiale, sono tutti scanditi sull’uno-due, uno-due, e quindi bisogna lavorare su questa dialettica. La filosofia poi l’ha concettualizzato, con Hegel, l’ha definito tesi, antitesi e sintesi. Può essere un lavoro filosofico, ma non deve essere un lavoro intellettualistico perché altrimenti la sintesi non passa nella vita, rimane nella testa: come scriveva Canetti, in una “testa senza mondo”.

 

Pasolini asseriva che gli intellettuali fanno un lavoro tra comodità e benessere.

 «È vero, ma non sempre, adesso lo è diventato molto di più rispetto ai tempi di Pasolini che lo diceva in senso provocatorio e autopunitivo; credo che se vivesse oggi Pasolii sarebbe molto più tragicamente angosciato; quando nel dopoguerra lui si è formato, e faceva il suo lavoro pedagogico e poetico, così eclettico e ricco, così straordinario (penso al suo cinema più che al suo teatro e alla sua poesia) la società era ancora strutturata secondo un modello “classico”, a scuola c’era l’ordinamento umanistico gentiliniano, e nella società, pur pesantemente gerarchica, l’intellettuale aveva ancora una voce, specie se engagé o “militante”, come si diceva allora. È per questo che P.P.P: ha potuto creare scandalo, mentre oggi è scomparsa l’idea stessa di scandalo (sostituita da quella di provocazione furbesca). La deriva etica, e l’oscuramento della cultura umanistica hanno comportato la perdita del ruolo “di rispetto” dell’intellettuale e dell’artista come testimone (non come maître à penser, che se lo è, lo è senza volerlo) ma come testimone ed interprete della condizione umana. Pasolini, cattolico d’origine, aveva vivissimo questo senso, anche sacrificale, della testimonianza come etimologica martyrìa, ma rispetto agli anni ’50 e ’60, agli anni del boom, e anche ai ’70, quelli “di piombo”, è diventato tutto molto più difficile: allora lui poteva ancora vedere il nemico all’esterno (la corrotta società borghese) e poteva costruire il mito e il rimpianto del mondo contadino primigenio in via di sparizione. Oggi la società cosiddetta post-moderna è un melting pot massmediatico, molto confuso, dominato dalla finanza e dalla tecnologia. I giovani, ovviamente, sono sempre assetati di verità, di bellezza e di valori, ma sono a loro volta confusi e delusi in una società dell’immagine che li emargina e ne rifiuta i doni creativi, che sono quelli del futuro stesso.

Quello che cercano di fare i poeti – almeno io nel mio hortus, ma credo tutti gli scrittori e gli artisti non asserviti – è cercare di dar vita ad una società della sostanza, opposta alla società dell’immagine e dei consumi. Certo una società simile è difficile da costruire; nella società attuale, dominata dai gruppi di potere (segnatamente da quello finanziario), dalla forza che schiaccia e prosciuga l’anima e la realtà, i valori della persona tendono ad essere sacrificati o falsamente esaltati per gli scopi del potere stesso. In questo processo c’è un elemento veramente tragico, tragico e morale, come diceva Campana sulle orme di Nietzche. Campana è stato il mio primo amore poetico, e il suo destino “folle” è abbastanza emblematico del poète assassiné. Lui è un po’ il nostro Hölderlin, (certo, fatte le debite proporzioni); e anche Hölderlin è stupendo ma intraducibile, io non ho mai provato a tradurlo, anche se ho trovato insoddisfacenti le traduzioni italiane che ho letto; la migliore mi pare quella vecchia di Giorgio Vigolo che è arcaica, datata (è degli anni ’40) però Vigolo era un poeta, quindi l’orecchio epico e lirico che Hölderlin richiede c’era».

 

C’è una lingua che sente più affine a sé, una lingua da cui preferisce tradurre?

«Ultimamente ho tradotto molto dall’inglese ma…vede, io non parto dalla lingua, parto dall’autore, da un autore che amo, e solo di conseguenza dalla sua lingua . Ora è un periodo in cui mi dedico sll’inglese, perché amo molto Katherine Mansfield, e avendo già tradotto tutti i suoi racconti – un unico volume della Newton Compton recentemente ristampato – mi sono messa, veramente per amore, a tradurre tutte le sue poesie che erano state parzialmente antologizzate in diversi periodi e con differenti traduzioni che a mio aparere non le rendevano merito. Ho curato l’antologia Poesie e prose liriche, edita da “petite plaisance”, dove ci sono pressoché tutte le sue poesie, con l’aggiunta di un corpusdi prose liriche giovanili, basandomi sul testo inglese di O’ Sullivan che era uscito già nel 1988.

Poi ho incontrato, o meglio riscoperto, la voce di Tagore, che avevo letto in gioventù, negli anni Settanta, quando c’era la moda un po’ hippie dell’Oriente, e ho visto che non c’era nessuna traduzione italiana moderna della sua autobiografia; ce n’era una del 1928 che però è uno stranissimo rifacimento, assai fantasioso, con aggiunte e divagazioni del traduttore. Allora ho tradotto questa sua autobiografia intellettuale, Ricordi di vita, che è uscita presso “Studium” di Roma (è il primo volume della nuova Biblioteca Universale di Studium). L’inglese di Tagore è ovviamente assai diverso da quello della Mansfield, che era sì una “coloniale” ma si era formata studiando a Londra. L’inglese di Tagore, invece, era quello un po’ “strano” dell’India soggetta all’Impero Britannico; tra l’altro la traduzione inglese dell’autobiografia – che in originale era scritta in Bengali – non l’ha curata lui stesso, ma un nipote con l’approvazione dell’illustre zio.

Lei dice che io ho scritto tanto, ma se all’opposto di Kavafis, considera quello che ha scritto Tagore: 2.400 poesie, 2.200 canzoni, trenta opere di teatro, romanzi, eccetera…

 

Quindi l’inglese…

«In questo periodo sì. Poi l’editrice “Archinto” di Milano mi ha proposto di tradurre il carteggio di Tagore con la Ocampo, non Sylvina Ocampo, l’amica di Borges, ma la sorella maggiore, Victoria Ocampo, che è nota elitariamente ma che è stata una donna di grande talento, un’argentina molto brillante, colta, ambiziosa e impegnata, una mecenate di artisti e una femminista individualista. È stata la fondatrice della rivista “Sur” che ha “lanciato” Borges. C’è dunque questo carteggio con Tagore che risale a quando lo scrittore nel 1924 è andato a Buenos Aires e la Ocampo lo ha ospitato e si è innamorata di lui (del resto si diceva che tutte le donne del Bengala fossero innamorate di lui). Questo rapporto con la Ocampo poi continua a distanza per quindici anni. Sono lettere molto belle, ricche e fervide

Curare questo volume, ora uscito, per me è stata una bella esperienza perché mi sono confrontata con un “altro” inglese: l’inglese di Tagore è sempre quello coloniale, ma la Ocampo, che è argentina, scrive un inglese diverso, perché il suo imprinting, la sua formazione straniera era francese, perché allora, negli anni ’20, era la lingua colta dominante, quindi a volte fa dei calchi dal francese e dallo spagnolo, delle forme ibride e degli errori; tuttavia non ho fatto non un’edizione critica, ma un’edizione “leggibile”, anche perché se avessi dovuto continuamente mettere la parentesi quadra e la spiegazione “qui c’è il probabile calco del francese”, ed altre specificazioni del genere, trattando una materia che invece è appassionante, tellurica, sarebbe diventa un lavoro troppo accademico, pesante. E il carattere del libro non lo avrebbe sopportato».

Giusto per capire, parla tutte le lingue da cui traduce?

 «Be’ sono una traduttrice molto “a tavolino”. Le parlo prevalentemente nei viaggi, anche se sono consapevole che non facendone un uso frequente le lingue si perdono: il tedesco ad esempio ora l’ho abbastanza perso, ma tutte le lingue richiederebbero un uso assiduo; cerco di tenermi in esercizio leggendo i poeti».

Perché lei ha sempre letto in lingua originale?

«Certo, sempre! O meglio: nell’adolescenza, quando non conoscevo, il francese leggevo per esempio Baudelaire con il testo a fronte. Ero partita da Baudelaire che ha delle forme molto regolari, come i sonetti, per capire come era strutturata la lingua “alta”, poi naturalmente ho approfondito la grammatica, la sintassi ecc.. Certo se scrivo in una lingua strtaniera probabilmente faccio degli errori, però quando traduco in italiano sono quasi sicura di non farne, almeno non di rilevanti».

Si può cominciare a tradurre senza avere la sicurezza di sapere tutto?

«Sarebbe mostruoso avere la presunzione di sapere tutto. Pascoli ha fatto delle bellissime traduzioni da Tennyson, quasi dei rifacimenti, ma splendidi, e non credo che conoscesse bene l’inglese, quanto meno non ci sono prove che lo avesse studiato. È lecito e utile confrontarsi anche con le soluzioni di altri, ma che non siano copiature o calchi travestiti».

 

Le capita mai di leggere le traduzioni di altri autori prima di incominciare a tradurre?

«Certo, devo vedere in che modo è stato trattato l’autore e se la traduzione è buona può non valere la pena farne una nuova».

E nel caso di autori mai tradotti?

«Quella è una sfida “senza rete”. Per l’autobiografia di Tagore questo problema si è posto – come in passato per Barnes, per Herbert, per Segalen, per la Kolmar – perché la “traduzione” che c’era, quella del ’28, non era una traduzione, era una parafrasi moto fantasiosa. Del carteggio con la Ocampo non c’era nessuna traduzione, ma ha supplito l’esperienza, l’orecchio, l’amore, la tecnica, tutti “aiutanti magici”. Poi, certo, tutto è perfettibile e se dopo ne uscisse un’altra migliore della mia… non soffro particolarmente d’invidia, casomai posso dire a me stessa: “perbacco, vediamo cosa posso imparare per la prossima volta”».

Le è mai capitato di trovare una traduzione che le è piaciuta più della sua?

«Ora se le dico di no mi sembra di essere una megalomane…però sono un po’ imparagonabili le traduzioni, sono come le persone. Per esempio, quelle della Woolf fatte da Nadia Fusini non sono affatto male, ma il suo è un altro modo, è un altro approccio, in un’altra lingua. Lei traduce in una buona prosa, però secondo me le manca un po’ di ritmo, di “volo”. Ma è uin confronto veramente improbo e ingiusto da fare: ogni traduzione è unica, e per giudicare le proprie non si ha la distanza critica necessaria».

 

Sembra che stia parlando di brani musicali.

«Sì, perché la poesia è musica. È difficile dire se la musica provenzale sia migliore di quella indiana, o se Schubert sia meglio di Puccini, ognuno è veramente un “cosmo”. Diciamo che in passato ci sono state delle traduzioni da cui ho imparato molto, però non ho mai cercato di riprodurle, non sarebbe possibile né produttivo. Un lavoro “vero” deve trovare la sua voce e il suo stile. Ricevo tanti libri di poesie, specialmente di giovani, che chiedono un giudizio sincero, ma è molto difficile darglielo, perché se mi azzardo a fare una qualche riserva del tipo: “Lei si deve ancora formare” oppure: “si sente ancora molto l’impronta del tale poeta” di solito l’autore si offende, il che mi dispiace, così come mi dispiace mentire».

 

Invece sarebbe interessante avere un parere.

«Certo, tutti dovremmo imparare a migliorarci scambiandoci pareri anche molto critici, ma una critica sincera suona spesso difficile da sopportare per chi le riceve. C’è il “pianoforte della vanità”, come lo chiamava Panzini, che “non è mai così scordato e muto sì che non mandi alcun suono”. È proprio vero, non c’è modo di farlo tacere del tutto, però è possibile, col tempo, mettergli la sordina e usare il pedale. Oggi, ad esempio, vengono diffusi strumenti comunicativi “istantanei” e il tempo è così veloce che viene schiacciato, non lo si considera più. Penso alle e-mail e agli sms, al “tempo reale”, ma quale è il tempo reale della vera comunicazione? È come per il vino, il mosto si deve decantare con lentezza, e la lentezza ci vuole. Paul Valéry ha scritto L’elogio della lentezza, ora c’è la moda dello slow food, ma il tempo resta veramente parcellizzato e non olistico. Adesso, pare, hanno scoperto i neutrini ed è andato in crisi anche il limite della velocità della luce. Ho scritto una poesia sui neutrini, una metafora un po’ scherzosa e un po’ seria, però sentivo di affrontare questo argomento; è forte la nostra presunzione di toccare e superare la frontiera scientifica dello scibile. Pensavamo di aver capito tutto, o quasi dell’universo con la teoria della relatività … I neutrini per me sono la metafora dell’imponderabile, di quello che ci sorprende, ci meraviglia, ci spiazza, e li ho ritratti come i folletti delle fiabe romantiche. Forse i poeti sono rimasti meno sorpresi degli scienziati da questa scoperta. Poi c’è anche da dire che l’Italia possiede doni di straordinaria bellezza, specialmente nel campo dell’arte, che vengono dall’“anima fanciulla”, dalla meraviglia platonica, ma non ha mai raggiunto la maturità storico-politica, è anche un paese molto “dimenticone”, che rimuove la memoria storica; l’abbiamo persa troppo a lungo, adesso è necessaria una rinascita fondata sulla consapevolezza civile e interiore. Siamo un paese vecchio, come vecchia è l’Europa, per questo dovremmo essere dei nonni più saggi e credibili, invece che essere dei nonni farseschi, che si truccano e si comportano da adolescenti, da Pierini infatuati e menefreghisti».

 

Oggi va di moda l’adolescenzialità.

«Si tratta di un mito che viene da lontano, è il mito dell’eterna giovinezza e del ringiovanimento che dal Romanticismo europeo in poi, specialmente col Werchter e il Faust di Goethe, diventato dominante nella cultura europea soppiantando la figura classica e medievale del vecchio saggio, portatore di memoria personale e collettiva; ha prevalso il fascino dionisiaco della gioventù, del futuribile, del “blé en herbe” come lo chiamava Colette (e pensi poi alla Lolita di Nabokov). Negli ultimi decenni questo mito è degenerato nelle forme spicciole, omologanti e spesso grottesche, della chirurgia plastica».

La metafora di Pasolini, “vecchi ruderi di cui nessuno conosce …”, è proprio questo uno dei problemi. Il rudere è anche il vecchio artigiano?

«Il vecchio artigiano non è un rudere né un mito o una metafore romantica, è un basamento su cui continuare a costruire creativamente, unendo tradizione e invenzione. Io sono felice di provenire da una famiglia di artigiani. Mio padre era un artigiano del legno, un restauratore-artista del mobile, mio fratello è stato un famoso restauratore di quadri antichi: ha restaurato alcuni dei capolavori assoluti della pittura».

 

 

Lei è stata ragazza di bottega?

«Non non ne avevo l’attitudine, il mio centro di gravità è sempre stato nelle parole, ma ne sentivo il fascino estetico. Quando ero bambina andavo nella bottega di mio padre, un antico stanzone-falegnameria, guardavo quello che faceva e mi piacevano l’odore del legno, gli intarsi. Un lavoro paziente, silenzioso, creativo, che solo dopo decenni ho collegato alla scrittura e alla traduzione. Mio padre alcuni mobili non li vendeva proprio, “con tutto il tempo che ho impiegato per costrurli”, diceva, “che prezzo dovrei chiedere?” Erano come un libro di poesia, un pezzo musicale, una bella traduzione, un quadro riuscito, come tutte quelle cose che richiedono un tempo e un’abilità non quantificabile. Della bottega di mio padre ricordo con intensità i trucioli, le spirali leggere del legno piallato. Quando ero piccola, disegnavo sempre spirali. E anche quando mio padre mi portava dei pezzetti di legno, io ci disegnavo sopra spirali col lapis copiativo. Era proprio una forma cosmica, primordiale, dell’ inconscio collettivo direbbe Jung; una forma che mi affascinava e che nessuno mi aveva mai mostrato».

 

E il suono?

«Il suono è il fondamento del mondo, e le arti sono tutte sorelle, sono variazioni sul tema, personificate in età classica nelle nove Muse. Le Muse sono come altrettanti dialetti della stessa lingua primigenia. La pittura ha un ritmo, così come la musica ha un colore. Il suono primordiale ricordato anche nelle Sacre Scritture, l’Om, o il Logod, fa nascere il mondo, è il Big Bang fisico e simbolico che crea le forme dell’essere e le rifrange in variazioni innumerevoli».

 

È strano che lei, poetessa, scrittrice, traduttrice, ci stia parlando di suono. Abbiamo incontrato musicisti che per spiegarci il suono ci hanno fatto l’esempio di un libro. Dicono che suonare, imparare a suonare, è come leggere un libro perché anche il musicista si esprime per frasi.

«Il principio della traduzione di cui parlavamo, è appunto questo; trovare una frase, una musica equivalente all’originale, una musica verbale ed interiore. Lo stesso vale per la poesia, che nasce da una o più “voci di dentro” che si esprimono in immagini ritmiche. Il libro poi, è una metafora ricorrente in tutti i miti di creazione; penso in particolare al Corano islamico, ma anche al topos interculturale del “libro della vita”».

Difficilmente si incontrano professionisti che sentono l’esigenza di trarre ispirazione da altri contesti. Quando parlo di queste cose ai miei allievi è come se cadessero dalle nuvole, perché sono talmente standardizzati sul concetto di sapere scolastico che lasciano veramente poche vie all’imprevedibile.

«Certo, il sistema scolastico, come qualunque “indottrinamento” o acculturazione, può creare gabbie mentali, perdita di fantasia creativa e fissazione di stereotipi, di un’erudizione “a compartimenti stagni”, o frettolosamente integrata da Internet e dal suofast food planetario, dove inevitabilmente la quantità abbassa la qualità del sapere, una volta elitario. Anche l’Università è diventata una sorta di super-liceo per effetto della cultura tecnologica di massa. Ma gli allievi migliori – magari supportati dai punti di eccellenza ancora esistenti in Italia, e più all’estero, trovano e troveranno sempre in sé il desiderio e il bisogno di ampliare i loro orizzonti in senso multidisciplinare, interculturale. La realtà contemporanea sembra drammatica, distruttiva ed autodistruttiva, ed in buona misura lo è, ma se si leggono i papiri egizi, le testimonianze degli scribi denunciavano la decadenza dei costumi etici e socili e la crescita della corruzione rispetto ai tempi antichi. Il sentimento della decadenza è una costante, perché nel profondo di noi vive il mito dell’età dell’oro, dell’Eden perduto. Per quanto mi riguarda, sento veri i cicli, i “corsi e ricorsi” di Vico, e poi di Nietzsche , per cui le realtà ritornano, anche se in una forma storica e con immagine diversa. Anche Pasolini percepiva questo. Il mito positivista dell’infinito progresso e possesso ha favorito le scoperte scientifiche, ma ci stà portando a distruggere la Madre Terra, il pianeta. Tuttavia stiamo assistendo ad una crescita della coscienza individuale. Stiamo lentamente acquisendo la consapevolezza, anche interiore, della nostra violenza distruttiva, ma è difficile acquisire un livello di coscienza globale, perché il nostro mondo è come un’eterna scuola con tante classi, e, a parte una certa quantità di analfabeti, refrattari agli input educativi, ci sono tante classi: gli studenti di prima elementare ci saranno sempre, ed ovviamente non hanno la stessa preparazione degli studenti di quinta liceo che pure ci saranno sempre, così come i professori cioè i maestri spirituali. Lo spirito delle nazioni, che i romantici avevano identificato, e lo spirito delle lingue indubbiamente esistono ed operano, come l’inconscio collettivo, ma non sono unitari, quindi non si può dire, in linea di massima, che una nazione sia più civile di un’altra, e poi anche nelle società più evolute ci sono sempre delle sacche di ignoranza e di pregiudizi, dei rigurgiti di barbarie, di “proiezioni sul nemico”, come ad esempio di razzismo, il nazionalismo intollerante e il sessismo, che si verificano continuamente in tutto il mondo. La democrazia, anche interiore, è un’acquisizione difficile e precaria, come la cima di una piramide».

 

Come si può sfuggire a questa forma di realtà che incasella, standardizza, che toglie il tempo, che impoverisce nella sua essenza ogni soggetto, anche se ovviamente il soggetto ci mette del suo?

«Penso che la capacità di sottrarsi alla standardizzazione sia un dono, oltre che una volontà. Ci sono molti giovani, e meno giovani, motivati e profondi, di ottima caratura morale. Il rischio comunque è quello di sfuggire ad uno stereotipo cadendo in un altro, magari quello dell’“alternativo” o del diversamente consumista. È sempre necessario, secondo me (cito ancora da Ungaretti) che “il vero poeta aneli a chiarezza”) e non solo il poeta e l’artista, ma ogni essere umano degno di chiamarsi tale: cercare di fare chiarezza dentro se stessi, di capire di che cosa si ha bisogno veramente, perché spesso si è ingannati da falsi desideri, “immagini di ben seguendo false” dice Dante; sono queste che l’omologazione incrementa e sfrutta».

 

Il desiderio confuso con il consumo …

«Sì, il desiderio indotto di cose, di oggetti che rassicurano, che fanno sognare i sogni degli altri, e non i propri, “distraggono” in senso etimologico, portano a smarrire l’identità, a “perdere l’anima” pur di identificarsi col gruppo socialmente prevalente. Ci vuole il coraggio di sentirsi “eretici”, e magari socialmente soli, ma uniti alle forze naturali e creaturali, e agli amici elettivamente affini; una condizione che personalmente, essendo introversa e nata sotto il segno dei Gemelli, ho accettato da quando è iniziata la mia vita cosciente, facendone un elemento portante della mia poetica: l’ho chiamata Solitudine corale.

 

“La solitudine corale, mia,

come l’aria mi nutre e mi traversa

senza vedermi – onda di creature

dai sonanti colori m’accompagna al mio seggio

di silenziosa fiamma necessaria:

dell’empirea rosa testimone dispersa,

ho l’unisono senza l’umana compagnia”[1].

 

Ma bisogna dire che ogni “creativo” (non nel senso corrente e modaiolo del termine), ognuno di noi è veramente molto isolato, considerando che oggi non ci sono più i salotti letterari, quelli deprecati da Pasolini, i salotti borghesi che però, quantomeno erano ancora una forma decaduta e familistica di agorà, di cenacolo, di incontro. Anche i caffè letterariadesso sono scomparsi e le chat non valgono a sostituirli. Ma la solitudine di cui parlavo non è mai tale, perché ha sempre una tensione all’ascolto, è collegata in senso etimologico. Come diceva la Mansfield, parafrasando Van Gogh: “[Voglio] inchiodare l’orecchio alla porta per sentire la voce di chi è fuori”».

Lei come è riuscita a sfuggire alla trappola dell’omologazione?

«Non è detto che sia sfuggita pienamente, i confini dell’omologazione sono sfuggenti; come le dicevo, ho cercato per istinto la compagnia e la voce dei grandi poeti. Sono stata sempre un po’ extravagante in senso sociale e scolastico. Al liceo leggevo Baudelaire e i Simbolisti russi sotto il banco, durante le ore di matematica o di trigonometria (il mio spauracchio!). Soltanto dopo, attraverso i pitagorici, ho capito qualcosa dei fondamenti filosofici della matematica. Ero un po’ uno scandalo buffo per i miei compagni di classe, mi guardavano con una diffidenza ironica che mi faceva soffrire. Il mio professore di lettere, che amavo, quando lo incontro mi ricorda che talvolta scrivevo le mie poesie sul muro accanto al mio banco; avevo un amore smisurato per la poesia e la letteratura europea, e nelle vacanze estive spesso andavo in campagna in bicicletta, mi arrampicavo su un ulivo e leggevo per ore i poeti che via via scoprivo invece al mare, nell’estate del 1964, ho letto d’un fiato la Recherce di Proust. Allora ero letteralmente drogata di letteratura, quello per me era il mondo vero. Le altre droghe, quelle chimiche, per la mia generazione sono state una provocazione, una “contestazione” come si diceva allora, ma io non ne ho mai sentito il bisogno. Ora il consumo di sostanze stupefacenti mi pare più meccanico, più disperato, e non ideologico come accadeva allora; purtroppo è diventato ancora più precoce. A me pare impossibile che dei genitori pur alienati dal lavoro, non si accorgano che i figli fanno uso di sostanze stupefacenti. C’è un vuoto di ordine etico che dovrebbe essere colmato. So di usare paroloni: vocazione, ispirazione, etica! Anche Pasolini le usava, ed è andato ad insegnare ai ragazzini incolti del Friuli. Certo lui aveva delle motivazioni “romantiche”, vedeva il sottoproletariato come paradiso, anche sensuale; però la motivazione etica di un insegnante deve venire prima e nonostante tutto, altrimenti manca a se stesso. È vero che in Italia, specialmente nell’ultimo ventennio, si è fatto e si fa di tutto per demotivare i giovani e gli insegnanti col precariato, è stato screditato ogni valore e prestigio alla cultura, in particolare a quella umanistica, ma anche alla vera ricerca scientifica, togliendole i fondi necessari, e incoraggiando un iper-tecnologismo passivo, massificato, furbesco. Ma l’anima ha bisogno di nutrimento. Ha notato che anche i papi non parlano quasi più dell’anima? Quindi dell’anima parlano solo gli artisti con i loro strumenti, ed anche gli educatori: anche quella è tuttavia un’arte, difficile e socratica.

 

Lei ha detto prima di non aver mai incontrato un maestro. Pensa che sarebbe cambiata la sua vita se ne avesse avuto uno?

 «Forse no. Probabilmente avrei avuto un imprinting più “personalizzato”, come l’hanno avuto ad esempio gli allievi di Longhi o di De Robertis; poi però, essendo parecchio individualista, anche per l’eredità familiare artigiana, penso che presto sarei andata per la mia strada, anche se devo ammettere di avere una certa nostalgia sentimentale per padri, madri e maestri, soprattutto spirituali».

 

E lei adesso, da maestro, ha discepoli?

 «Non mi sento un maestro, mi sento un poeta-madre (e ormai felicemente nonna). Non credo di avere discepoli. Ho degli amici giovani, e degli ex allievi che ogni tanto vengono a trovarmi, mi scrivono. Qualcuno è diventato uno scrittore o uno studioso, mi manda i suoi lavori, ed ho vari amici artisti anche loro giovani, con cui ho molto feeling, la loro bravura, il loro entusiasmo ed affetto mi nutrono molto e con loro mi è più facile collaborare rispetto ai miei coetanei».

 

Ci parli ancora della sua spinta interiore quando era ragazzina. Il suo desiderio di leggere, di conoscere, la sua curiosità…

 «Già da bambina, a tre anni, raccoglievo i fogli che trovavo per terra, dei pezzi di giornale, non sapevo leggere, però ne ero attratta, sentivo che lì c’era “qualcosa”. Era un amore istintivo, una passione per un regno che ancora non conoscevo, ma sapevo che c’era e che io dovevo entrare lì, nelle parole, dovevo leggerle e scriverle. Poi non ho più smesso di farlo, con qualunque testo mi capitasse. In casa mia non c’erano molti libri, ma c’era La divina Commedia, in una edizione degli anni Trenta, quindi a dieci anni mi misi a leggere Dante, non capendo quasi niente sul piano intellettuale, ma rimanendo incantata dalle immagini, dalle rime, dal suono. Insomma è stata subito una passione, io non la definirei curiosità, né ambizione. In un tema di quinta elementare scrissi – si trattava di uno dei temi allora obbligati del tipo “cosa volete fare da grandi” – io scrissi che volevo “fare la carriera della poetessa”; allora credevo ingenuamente che fosse una carriera, però era ciò che volevo e che sentivo di dover fare. Non avrei potuto fare nient’altro. Poi certamente mi sono resa conto che che carmina non dant panem e quindi c’è stato l’insegnamento, qualche supplenza alle superiori e poi l’Università.

Ora non sono più addicted ai libri, il vino si è decantato, a sua volta, e la vita mi è venuta incontro in tutti i suoi aspetti, ma quella vocazione, quel bisogno fisiologico è rimasto intatto, si è arricchito qualitativamente. Anche i vostri ragazzi, credo che troveranno la via per esprimere la loro personale “arte”».

 

Spesso questa sensibilità innata è anestetizzata anche da feticci tipo playstation, giochi virtuali, computer. Questi sono muri.

 «È vero, possono essere droghe facili…Lo stesso uso del computer ha comportato la conseguenza che molti ragazzi non sanno più scrivere a mano oconversare. Io ho la sventura, che per me è stata la provvida sventura di Manzoni, di non poter usare il computer per ragioni di vista, ma questo handicap non nuoce all’ispirazione, anzi. Ho sempre scritto tutto a mano, e scrivere a mano le poesie comporta un contatto fisico, per me prezioso, con la penna e con la carta, quindi con l’albero e con la natura. L’uso del computer (certo utilissimo) ha comportato però anche la perdita della variantistica letteraria, che era preziosa per gli studiosi e per i lettori attenti: penso alle varianti molto significative delle poesie di Leopardi o di Montale, su cui si tenevano interi corsi. La grafia, le cancellature, tutto era significativo, come nelle vecchie lettere, sostituite dalle più sbrigative e mails. Dopo la versione a mano io copio e modifico ancora a macchina, ne ho una elettrica, ma ho dei problemi per trovare i nastri in via di esaurimento. Il mio è un lavoro di antico artigianato, di scriba arcaico in via di estinzione. Comunque non mi scoraggio. Anche Pasolini continuava a scrivere, sempre affermando che non c’era via d’uscita dalla morte della poesia… Poi mio marito, pazientemente scannerizza e digitalizza tutto.».

 

Mai arrendersi…

«Appunto. Penso a Gorgia e ai sofisti, che tenevano discorsi sulla necessità di non parlare. Tutto il nostro lavoro è paradossale, è basato sugli ossimori, come la vita. Un lavoro à rebours, in direzione contraria all’attuale “aziendalizzazione” e mercificazione di tutto, compresa l’Università e la scuola, dove fumosi giudizi avevano sostituito i voti, che ora hanno dovuto reintrodurre. È importantenon essere complici in questo processo , o esserlo il meno possibile. Simone Weil diceva :“Non mentire, non essere complici, non restare ciechi”. Certo questa fedeltà si paga, tutto questo si paga in termini di emarginazione mondana, di solitudine, come ho già detto, però il compenso è alto qualitativamente, sia per l’autostima e per la propria interiorità, per la propria libera “autocostruzione”, sia sul piano della stima e dell’affetto dei ragazzi, quando si è insegnanti».

 

Io vedo che le persone non si amano

«Spesso non riescono a farlo perché si disprezzano, non hanno autostima, provengono magari da famiglie anaffettive dove non c’è amore, né valori, né rispetto. Anche la nostra società non aiuta nel dare prospettive, nell’offrire un futuro, non solo ai giovani, ma anche a persone in età che magari perdono il lavoro e che si sentono “rottamati”, e comprensibilmente cadono nella disperazione. Ogni persona è un cosmo complesso, e le cause del non-amore possono avere molte e differenti configurazioni. La condizione umana è assai imperfetta, però Rita Levi Montalcini ha scritto il famoso e combattivo Elogio dell’imperfezione… Magari arriveremo a centodue anni come lei, elogiando l’imperfezione, ma amando la perfezione».

 

Una curiosità: la poesia su Wittgenstein?…

 «Io non sono una filosofa, anche se la mia poesia è stata definita “pensante”, e non capisco granché di logica. La lirica su Wittgenstein cerca di restituire metaforicamente l’elemento ascetico che c’è nei suoi scritti, la sua forma filosofica di “misticismo” implicito, che io avverto fortmente e che mi affascina. Avverto che il Tractatus, al di là della sua importanza “tecnica”, è molto bello, anche se lo capisco poco più di quanto capivo Dante a dieci anni, è bello per la sua ricerca di verità e di assoluto, al di la della credenza, della doxa».

 

Se non ricordo male lo ha composto prevalentemente sul fronte, durante la prima Guerra Mondiale.

«Le cose fondamentali e importanti, spesso si scrivono in condizioni estreme, di pericolo, di precarietà assoluta. Anche Ungaretti ha scritto L’Allegria sul Carso».

 

E lei ha un autore preferito?

«Sarebbero troppi da elencare, è una scelta impossibile: da Platone a Dante, ai mistici sufi da Shakespeare e gli elisabettiani a tutti i classici, fino ai grandi del Novecento Proust e Kafka, un po’ meno Musil e Joyce, Oscar Wilde e i modernisti, i simbolisti russi… Anche gli scrittori mitteleuropei, Kraus e in particolare Canetti, che è stato uno degli autori della mia autoformazione: Massa e Potere, l’Autobiografia e il suo straordinario romanzo Die Wendlung, il cui titolo in italiano è stato tradotto malamente con Autodafé. Canetti è uno scrittore nutriente, quando morì fui molto colpita dalla notizia, mi ricordo che mi trovavo a Londra, sono andata a sedermi in un giardino ed ho scritto una poesia in sua memoria, Per Elias».

Non esiste solo il contemporaneo, è vero…

 «Il concetto di contemporaneità è falso e contingente. Io Omero e Sofocle li sento molto contemporanei, contemporanei sono tutti i grandi, ma anche i meno grandi, tutti quelli che contribuiscono allo sviluppo della coscienza cosmica e personale. Il tempo è una dimensione interiore, come Agostino ci ha insegnato precedendo Einstein e il suo spazio curvo. Il nostro tempo umano è un atomo nel cosmo, quello degli animali un altro atomo, quello delle piante un altro ancora, per non parlare di quello dei sistemi stellari, e tutti insieme facciamo parte di un cosmo che è armonia e bellezza. Non dobbiamo sentirsi schiacciati dal presente storico: il “contemporaneo” passerà presto, come i secoli precedenti, come noi. Mitridate, re del Ponto, aveva un anello su cui era scritto “anche questo passerà”, è un aneddoto famoso. Certo nella nostra dimensione c’è il tempo specifico, e ci sono le occasioni, le scelte da fare , i dubbi… Però ce lo dice la voce interiore, il nostro daimon, qual è la nostra strada, la voce interiore magari incarnata in una persona. Non c’è da aver troppa paura, un po’ sì, ma ragionata. La vita stessa ci guida, la “madre vita” ci dà segnali, ci fa incontrare in un certo momento una certa persona, un messaggio, una situazione, un libro. I greci lo chiamavano il kairós. Ci vuole attenzione, bisogna essere ricettivi e contraccambiare, lavorando su se stessi, fino a diventare chi siamo e chi saremo».

E il cliché del poeta?

 «Genio e follia? È un cliché romantico, uno stereotipo, e per crescere bisogna sgombrare la mente dagli stereotipi. Certo il più famoso dei maudits, Baudelaire, ha vissuto in un certo contesto, il decadentismo francese, ed è un grande poeta che faceva uso di droghe, come del resto Coleridge, De Quincey, e poi nel Novecento Artaud o Trakl… Fra l’altro Baudelaire , come molti grandi, come Rilke, è un poeta intraducibile, l’ho già detto. Le traduzioni delle sue poesie sono tutte insoddisfacenti: è impossibile riprodurre il ritmo solenne e le forme chiuse de Le Fleurs du Mal. Qualche traduttore ha usato la prosa ritmica, o i versi sciolti, i più coraggiosi hanno tentato di rifare il suo sonetto, ma secondo me non con grande resa. Io ho rinunciato a priori, ed anche questa è una forma di omaggio».

 

Trasgredire?

 «Non c’è più nulla da trasgredire…nel senso che, come si è detto prima, nulla fa più scandalo; ormai si possono fare solo piccole variazioni sul tema per smania di protagonismo mediatico. La mia forma di trasgressione è sempre stata, per carattere, per destino, “lavorare zitti”, come diceva Giovanni Boine, uno scrittore legato al gruppo della “Riviera ligure”, morto tisico a trent’anni nel 1918, un critico di istinto e di stile formidabile, un modernista nostrano, come del resto molti dei cosiddetti “vociani”. Certo chi è estroverso, esibizionista ed è incline al protagonismo, non può lavorare zitto. Per me è naturale, caratteriale appunto. Ho insegnato per trentacinque anni, però ogni volta che salivo in cattedra dovevo fare una certa violenza a me stessa, e tuttora quando parlo in pubblico».

 

Che bello!

«No, non tanto. Il lavoro da fare diventa doppio».
I musicisti dicono che se la paura del palco andasse via, non avrebbero più motivo di salirci

«Il palco di un musicista o di un attore è un po’ diverso da una cattedra, o dal tavolo di un Convegno, però ti senti comunque osservato, pesato, sezionato. È una sfida continua, ma può diventare una prova di umiltà, un dono di sé. Io non sono incline alle apparizioni mediatiche e neppure alle conferenze, pur avendone fatte molte ed avendo ricevuto molti premi e riconoscimenti. Ogni volta che devo salire su un palco lo sforzo rimane, ma mi consola credere che la forza sia appunto una somma di debolezze ben usate, compattate e sublimate, come direbbe Freud. Molti attori ed artisti, com’è noto, sono dei timidi assoluti. Il narcisimo, la vanità, sono una grande debolezza, al di la dell’apparenza; rendono vulnerabili al ricatto, all’adulazione, alla prostituzione intellettuale, alle delusioni e alle manie di grandezza. Questo non significa che non si debba avere autostima: come sempre, in medio stat virtus».

 

[1] M. Del Serra, L’opera del vento. Poesie 1965 – 2005, Marsilio, Venezia 2006, p. 131.

AISE

(Associazione Internazionale Stampa Estera), 27/05/2019

 

L'INTENSITÀ DELLE PAROLE. INTERVISTA ALLA POETESSA MAURA DEL SERRA

Di Valeria Marzoli 

 

PAESTUM\ aise\- Il 27 giugno 2019, nell'ambito della XII dizione del Festival della Poesia Europea dove le parole di Goethe risuoneranno nella suggestiva cornice dei templi di Paestum, Maura Del Serra sarà una delle voci recitanti dell'evento.
Vera e propria pietra miliare del mondo culturale italiano, poetessa eclettica che utilizza diversi registri artistici. Drammaturga. Poeta. Saggista. Traduttrice. La sua scrittura si distingue per un’intensa ricerca delle parole, del verso. Fra le sue opere ricordiamo L'opera del vento. Poesie 1965-2005 (2006) e Tentativi di certezza. Poesie 1999-2009 (2010), Teatro (2015), che raccoglie tutti i suoi testi teatrali, Di poesia e d'altro. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti nazionali ed internazionali, fra i quali: il premio “Montale” per la poesia, il premio “Flaiano” per il teatro e il premio “Betocchi” per la traduzione.
D. Traduttrice. Critica letteraria. Drammaturga, ma anche e soprattutto poetessa. Ci parli del Suo universo poetico.

R. Il mio lavoro ormai annoso, che coincide e si trasla nella mia vita quotidiana, consiste nel dare corpo poetico, nello “scolpire” l'esperienza personale, traducendola, secondo le mie capacità, nell'universale, mettendo in comunicazione il visibile con l'invisibile che gli dà sostanza. Per me quindi la poesia è etimologicamente una “religio”, una “voce di voci” che tende a farsi onnicomprensiva degli stati dell'essere (umano, ma anche animale, vegetale e cosmico): ed è perciò un dono ed una grazia a cui cerco di conservarmi fedele, perché è capace - anche se apparentemente inascoltata od oscurata nel sociale - di riscattare l'indifferenza, il dolore e la disarmonia personale e collettiva attraverso la conoscenza empatica in cui immerge me e il lettore.
D. La poesia scava in ognuno di noi e ci regala grandi emozioni. Ci dia la Sua definizione del concetto di poesia.
R. La poesia è un'esperienza interiore pervasiva, totalizzante e nutriente, come quella degli elementi e delle forze naturali di cui viviamo (aria, luce, fuoco, acqua, terra, respiro, energia): elementi che l'anima e la mente plasmano in parole/forme “musicali”, cioè pertinenti alle Muse quali mitiche figlie dei Mnemosyne, la Memoria strutturante, che si muove fra tradizione ed invenzione. Da più di un trentennio le mie “voci” poetiche hanno assunto, come accennavo, anche una forma drammaturgica peculiare, il cosiddetto teatro di poesia - in versi, in prosa o in entrambe.
D.
La poesia ci offre la possibilità di entrare nell'animo umano e di mettere in luce il mondo interiore del poeta. Che cosa vuole evidenziare con la Sua poesia?
R. Direi che la poesia, passando attraverso di me, mette in luce alcuni colori del suo prisma, ovvero della sua parabola nel triplice senso del sostantivo manifestando le sua qualità salutari, il suo potenziale di riscatto e di catarsi dagli errori e dalle illusioni, spesso violente, che abbagliano l'essere umano, restituendo senso alla parola come via verso una dimensione di certezza non più soggettiva, di verità come bellezza che sia anche un bene conoscitivo profondo, in ogni tempo ed oggi più che mai necessario alla nostra condizione, che è sempre borderline, sospesa tra ordine costruttivo e dismisura distruttiva.
D.
Ci renda partecipi del Suo processo creativo. Che cosa prova quando riesce a fissare in un verso le Sue emozioni?
R. Provo un intenso e complesso stato di full immersion, insieme fluido e laborioso; il senso di essere parte di un'onda molteplice di forze e di forme che si plasmano in immagini simboliche; nelle quali la mia soggettività è insieme messa alla prova e superata come nella “cottura” di un crogiolo alchemico che filtra e ribolle (anche scottando l'alchimista!) per diventare cibo o bevanda per i visitatori. Io credo che la poesia, come diceva Pasternak, sia “una funzione organica della felicità dell'uomo”: una funzione da ritrovare e valorizzare continuamente, una “scena” da non lasciare mai vuota.
D.
Le letture che più hanno segnato il Suo percorso culturale, ovvero chi sono gli/le autori/autrici che hanno contato nella Sua formazione?
R. La mia formazione è avvenuta all'insegna dei classici antichi e moderni, come pure del romanticismo, del decadentismo e del modernismo europeo. Queste radici restano il mio centro gravitazionale: Ma devo moltissimo anche alla musica polifonica antica e a musicisti geniali come Monteverdi e Mozart, e così pure alla poesia/filosofia orientale, ai mistici sufi e zen e a filos ofi come Spinoza e Simone Weil, che considero la mia maestra spirituale. Amo anche le arti visive, il cinema e la cosiddetta world music: da giovane ho molto amato i Beatles come ottimi “traduttori” e divulgatori inventivi della musica elisabettiana nel pop.
D.
Nel mondo contemporaneo assistiamo ad atti di sopraffazione, di soggiogazione, di violenza, e spesso i diritti umani sono violati e calpestati. Ci parli del Suo impegno civile.
R. Questa dimensione è divenuta parte sempre più esplicita della mia poesia a partire dalla fine degli anni '80 del secolo scorso coi suoi rivolgimenti epocali, ed è un “tema” ormai congenere a quelli etici, creaturali simbolici della mia opera. Da molti anni sono iscritta ad Amnesty International e mi sento coinvolta da tutti i movimenti non violenti di riscatto civile e sociale, ivi compreso quello femminile.
D.
Il 27 giugno 2019, nell'ambito della XII dizione del Festival della Poesia Europea le parole di Goethe risuoneranno nella suggestiva cornice dei templi di Paestum e Lei sarà una delle voci recitanti dell'evento. Che cosa rappresenta per Lei Goethe?
R. Carmelo Bene definiva Goethe “l'assessore al classico”: al di là dell'humour insieme corrosivo ed omaggiante, l'espressione mi appare condivisibile, nel senso che Goethe per tutti noi è una sorta di gigante enciclopedico, fondatore della comparatistica europea, scienziato e poeta-ponte tra Illuminismo e Romanticismo (che egli definiva spiritosamente “una nobile malattia”). È stato per me un autore da assimilare, soprattutto nella sua monumentale riscrittura ed attraversamento della mitologia classico-medievale e romantica che è il Faust (il primo e il secondo); ma è stato importante per me anche come grande autore epigrammatico e teatrale (il Meister, ma anche il suo travagliato Tasso, da cui ho tratto qualche anno fa un moderno libretto d'opera scritto su commissione). E naturalmente il suo Viaggio in Italia è l'affascinante epitone di ogni Grand Tour come scoperta e discesa nella Grande Madre mediterranea e nella sua gioia vitale. Sono lieta che il Festival della Poesia Europea mi offra l'occasione di rivisitarne l'opera, così ricca di esperienza della natura umana. (aise)

INTERVISTA A MAURA DEL SERRA
SCRITTRICE, CRITICA, TRADUTTRICE, POETESSA.
QUALCHE RIGA PER AVVICINARCI AL SUO PENSIERO DEL TESTO SCRITTO E LETTO

A cura di Nuria Kanzian

 

 

 

Intervista pubblicata su:
«La Gazzetta di Istambul» – Ottobre 2015 – Anno X – Rubrica “Scrittori & Scritti”

 

 

Quali sono gli autori (libri, scrittori o poeti) a cui si sente più affezionata?

Dovrei fare un elenco lunghissimo, ma posso rispondere in sintesi: i classici della tradizione occidentale, dai lirici greci a Dante agli Elisabettiani ai Romantici e ai Simbolisti, da Eliot a Proust a Simone Weill alla Szymborka … e a molti della tradizione orientale, specialmente quella sufi e taoista.


Preferisce gli autori italiani o quelli stranieri e perché?

È una distinzione che non mi corrisponde, mi è sempre stato naturale ricercare le voci salienti ed empatiche al di là di ogni barriera geografica o linguistica.


Quali sono i principali problemi che si incontrano nella traduzione e come risolverli?

Caratteristica fondamentale ne è appunto la sintonia, l’empatia con l’autore tradotto, nel senso che sia lui/lei a “sceglierti” come “pontifex” verso la tua lingua madre; i molti e complessi problemi tecnici si possono condensare nello sforzo di raggiungere una ossimorica “fedeltà infedele”, cioè nella capacità di restituire il senso e il ritmo profondo dell’originale trasponendolo in uno parallelo.


Cosa consiglierebbe a un giovane critico letterario per affermarsi oggi?

Più che consigliare, auguro ad un giovane studioso (critico o scrittore) di mantenersi fedele alla propria vocazione (parola insostituibile) e all’onestà intellettuale, senza cedere alle lusinghe di un facile successo massmediatico o alla rassicurante ma snaturante appartenenza a consorterie di potere. Per fortuna – come rovescio della medaglia – gli strumenti informatici attuali consentono anche ad autori “fuori dal coro” di far sentire la loro voce.


Quale è la poesia di Clemente Rebora che preferisce?

La grandezza complessa della poesia di Rebora mi rende difficile estrapolare una singola poesia: tutti i Frammenti lirici e i Canti anonimi sono per me di vitale eccellenza spirituale e originalità linguistica.


Della sua carriera quale ricordo le rimane più impresso?

Come è naturale, l’intensa e quasi meravigliata emozione avuta alla pubblicazione del mio primo libro su Campana, L’immagine aperta, uscito nel 1973 nella prestigiosa “Biblioteca di Cultura” della Nuova Italia di Firenze; ero ancora fresca di laurea, e l’emozione era accentuata dalla presenza, in quella stessa collana, di opere dei più autorevoli critici e studiosi del tempo. Nei decenni successivi sono state numerose le occasioni che ricordo con gioia, come quando nel 1992 ricevetti il Premio Internazionale “Flaiano” per la scrittura teatrale; in quella stessa edizione furono premiati anche José Saramago e Peter Handke per la narrativa, Alberto Sordi per il cinema e Tino Carraro come attore scenico. Mi sentii molto onorata dal Premio della Cultura conferitomi dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 2000; anche a Barcellona nel 1997 fu un’esperienza molto emozionante leggere i miei versi nel Palau de la Mùsica Catalana, davanti a un pubblico attento di 1800 spettatori, un’emozione condivisa con poeti di tutto il mondo. Ma fu tale anche la lettura più “privata” che tenni in quei giorni in un piccolo centro della Catalogna insieme al poeta polacco Adam Zagajewski. L’ultimo evento particolarmente intenso è stata l’uscita, nel 2014, dell’antologia poetica Canti e pietre (Sanger och Stenar) nell’edizione bilingue italiano-svedese, presso l’editore Tranan di Stoccolma, con le belle immagini delle sculture di Staffan Nihlén, gli interventi critici di Olle Granath e di André Ughetto e l’altrettanto bella traduzione di Julian Birbrajer.


Come è riuscita a conciliare lavoro e famiglia e a costo di quali rinunce?

È una domanda ancora inevitabile, topica, rivolta all”’altra metà del cielo” impegnata nella creazione artistica. La conciliazione mi ha richiesto ovviamente il massimo impegno e l’uso della nota capacità “simultanea” femminile. Fortunatamente non mi appartiene l’idea di “tempo libero” o mondano, perciò le rinunce (viaggi o “presenzialismi”, specie quando mia figlia era piccola) sono state accettabili, ed ampiamente compensate in seguito.


Sta lavorando a qualche nuovo progetto? Se sì quale?

Ho vari progetti in corso; adesso sto terminando la revisione del mio ultimo testo teatrale, la tragicommedia La torre di Iperione, che chiuderà il ponderoso volume collettaneo del mio Teatro di imminente pubblicazione (le accludo la copertina). Sto anche concludendo la revisione del mio libro di poesie Scala dei giuramenti, che uscirà ne 2016 presso l’ed. Contra Mundum Press (New York-Berlino) in edizione bilingue italiano-inglese, tradotto da Dominic Siracusa.


Dato che è sensibile ai diritti umani, cosa ne pensa del transito di tanti migranti in Turchia?

Le drammatiche, spesso tragiche, grandi migrazioni di questi ultimi anni sono un fenomeno umano, culturale e socio-politico molto grave e preoccupante, giacché sono migrazioni forzate, causate per lo più da guerre, dittature, carestie o comunque da condizioni di sopravvivenza disperanti. La Turchia, cruciale paese-ponte fra l’Europa e le zone “calde” del Medio Oriente, ha le sue peculiarità etniche, culturali e religiose, che costituiscono una ricchezza anti-omologante, ma anche un aspetto che può acuire le problematiche nel far fronte a questo imponente fenomeno che coinvolge tutta la zona del Mediterraneo fino al Nord Europa. È importante, direi vitale, che ogni artista e ogni persona di buona volontà si senta coinvolta eticamente e che, al di là delle forze istituzionali, si adoperi per perseguire la pace, il rispetto dei diritti umani e di tutti i viventi.

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