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Egle Marini. La parola scolpita



Interventi di Maura Del Serra e di Silvio Ramat in occasione della presentazione del volume Egle Marini. La parola scolpita, Pistoia, Sala Maggiore del Palazzo Comunale, 7 dicembre 2001


È stato per me un onore poter curare la raccolta di questi scritti scelti di Egle Marini. Sono stata veramente gratificata da questo lavoro; sono dispiaciuta di non aver potuto realizzare questo incontro in vita con Egle, ma, come dire, simbolicamente ci siamo ritrovate in questa dimensione della sua scrittura che fa tutt'uno, poi, con quella della pittura: non bisogna dimenticare che Egle è stata valentissima pittrice fino agli anni Trenta, e quindi ha praticato, dapprima in parallelo con Marino, quest'arte che è più transitiva rispetto alla scrittura, che ha invece una dimensione molto più introspettiva, nella quale poi Egle si è chiusa. Ma credo che questo libro sia importante, e vitale naturalmente, per testimoniare questa seconda fase dell'attività di Egle e per sottrarla quindi visibilmente - nel corpo vivo dei testi, che ora finalmente i lettori possono affrontare - per sottrarla a quelle cifre ipotecanti di provincialità crepuscolare o di sentimentalismo aneddotico, elegiaco, in cui alcuni critici in passato avevano confinato la sua arte figurativa. Se di questo crepuscolarismo sentimentale, che va di solito sotto la cifra del femminile, non c'è traccia nei quadri, che sono aperti in modo singolare e personale alle avanguardie italiane ed europee del tempo, tanto meno ce n'è traccia qui nell'opera letteraria, nelle opere graffiantissime e con dei risvolti a volte kafkiani e tozziani, e nelle poesie accesamente romantico-simboliste, come meglio ci dirà il prof. Ramat.

È importante qui questa testimonianza vivente, questo libro-persona (perché è veramente un libro-persona) che io ho curato con molto affetto, che sono stata appunto onorata di curare, anche per sottrarre Egle alla cifra di ombra del fratello: questo problema dell'ombra, del doppio, dell'alter ego femminile su cui non posso certo qui dilungarmi, è una cifra che nel Novecento meriterebbe approfondire, non soltanto a livello psicanalitico, ma sicuramente a livello artistico ed umano. Voglio solo dire che Egle è capace di costruire nei suoi scritti un teatro mitico e lirico della coscienza con dei forti risvolti grotteschi, ma che comunque è capace di dire per sé e di dire per gli altri a livello poetico, cogliendo appunto quegli aspetti più dolorosi della vita, dell'esistenza umana, gli aspetti della reificazione, soprattutto per quel che riguarda la presenza femminile e l'essere donna nella coppia e nella società con le sue convenzioni. Mi viene in mente, quando la signora che è intervenuta prima di me parlava di Virginia Woolf, che Egle ha realizzato davvero in modo personale e simbolico "la stanza tutta per sé", la room of one's own di Virginia: l'ha realizzata, ed è una stanza che adesso è aperta ai lettori. Di questo noi siamo felici e ci uniamo per primi ai lettori di Egle, sperando che questa lettura apra un nuovo capitolo della presenza letteraria toscana e non solo toscana, ma nazionale ed oltrenazionale del Novecento.


Maura Del Serra



Buonasera.

Io non conoscevo praticamente nulla di Egle Marini, non ho neanche potuto consultare finora il catalogo della mostra del 1990 che ne raccoglie l'opera di pittrice; quindi arrivando a questo libro, del quale, essendo il libro uscito due giorni fa, ho potuto maneggiare finora delle bozze, che continuerò a scorrere per degli appunti che ho preso via via su questi fogli, ecco, io, leggendo la bellissima prefazione di Maura Del Serra, potrei anche dire, come si usa, che è talmente esauriente quella indagine, quella ricostruzione, che non servirebbero parole aggiuntive; però d'altra parte sono qua, ho letto anche con la mia testa e con la mia percezione, e potrei partire subito dicendo qualcosa che può essere interessante e forse anche determinante, che sembra venir occultato da una prefazione che suona pur così a effetto, come il titolo del libro La parola scolpita. Ovviamente, nella Parola scolpita, trattandosi della sorella gemella di un grandissimo artista, si viene a pensare a quella parte del libro che reca ancora un titolo spurio, cioè Commenti poetici ispirati dalle opere di Marino: anche Maura Del Serra ci dice che questo titolo non è d'autrice e difatti non si tratta di "commenti"; ora non saprei bene come può essere fatto un commento in versi a un'opera d'arte: se mai ci può essere, come dire, un discorso che procede per via di paralleli, per via analogica: un discorso di poesia molto difficilmente può risultare un commento; piuttosto, prendendo le mosse da questo rilievo, ben presente a tutti, a cominciare appunto da Maura Del Serra, potrei dire che queste molte composizioni in versi, che a volte hanno anche una scansione molto particolare e direi apparentemente arbitraria nel sospendersi la riga su un "con" - "in" - "del", cioè su una preposizione semplice o articolata, senza apparentemente una necessità ritmico-melodica, queste composizioni in realtà sono qualche cosa di molto più profondo e complicato di quello che non sarebbe, come recita il titolo, diciamo funzionale, un "commento": in realtà la caratteristica e l'interesse di queste composizioni, ora più, ora meno riuscite, secondo me consiste in un'indagine sulla "preistoria" di ciascuna di queste opere d'arte che sono il punto di riferimento delle singole composizioni poetiche della sorella di Marino, si tratti delle Danzatrici, delle Pomone, soprattutto dei Cavalli, Cavalieri o dei Giocolieri, dei Guerrieri di altre serie delle sculture di Marino Marini. Qui quello che sembra più interessare a colei che le "riscrive", che riscrive le sculture, è un'indagine sul da dove, da dove viene questa scultura ed eventualmente dove va, verso dove procede - ho notato che soprattutto da un certo momento in avanti - si parte dagli anni cinquanta e si arriva alla metà degli anni settanta - è lungo l'arco cronologico di questa serie dei cosiddetti "commenti"; ho notato che a un certo punto quasi spariscono i verbi al presente, che è il verbo della descrizione, di una cosa che si vede. I verbi sono quasi tutti al passato, il passato remoto e l'imperfetto, che cercano di ricostruire in una sorta di affabulazione - impossibile se vogliamo - ma tutta diciamo d'ingegno, tutta di fantasia - di ricostruire, dentro, il laboratorio e dentro in un certo senso la testa dello scultore che produceva - come dire - dentro cui si generavano queste opere d'arte. Se voi appunto seguite la grammatica di questi componimenti, il passato prevale. Quindi è la genesi, la preistoria dell'opera che finalmente viene vista, la preistoria della forma e anche, soprattutto - ed è giocoforza - nella serie dei Cavalli o Cavalieri o Cavaliere e Cavallo insieme, c'è anche questo senso del procedere, che comporta a volte l'uso del verbo al futuro. Questo è un fenomeno che non è interessante solo per la sua grammaticalità, ma è interessante perché corrisponde ad un'attitudine psicologica, quindi nient'affatto "commento", ma "ipotesi", "congettura", sulla genesi dell'opera d'arte e anche sul verso dove, come ho detto prima.

Questo è interessante, perché queste poesie, che potrebbero parere "servili", se funzionali soltanto all'esplicazione di qualcosa che c'è già, naturalmente diventano delle forme autonome. Un altro aspetto interessante in questa apparente ripetitività, in questo atteggiamento che sembra ripetitivo perché ogni volta noi abbiamo la scultura di Marino, che è il titolo, l'insegna, del singolo componimento: però in questa apparente ripetitività, in questa serialità, avviene anche - mi è sembrato di poterlo cogliere - a un certo punto uno scarto, e questo scarto si verifica nel passaggio dal bronzo alla pietra, cioè nel momento in cui la scrittrice - la sorella gemella di Marino - passa dal descrivere opere che sono prevalentemente in bronzo, e nelle quali dunque conta moltissimo la drammaticità della luce, il modo in cui la luce si riflette dal bronzo intorno, a come invece non si riflette nella pietra: cambia moltissimo, e le variazioni sul tema della scultura in pietra assumono anche un valore più forte forse perché sono meno immediatamente suggestionanti sul piano di questi effetti, di queste rifrazioni, e allora la poesia di Egle non sembra più una poesia fatta in presenza di un soggetto, di una forma definita, ma sembra quasi contribuire alla definizione di una forma che non si vede. Cioè, secondo me, almeno per il mio gusto, le poesie che hanno un maggior valore di originalità - parlo in senso generale, poi ci sono delle eccezioni nell'uno e nell'altro gruppo - sono quelle nelle quali noi non vediamo, non sappiamo immediatamente riconoscere - perché appunto non è indicato - quale sia il soggetto a cui Egle si sta riferendo. Ci sono quindi delle variazioni, delle rimodulazioni all'interno di questa apparente serialità.

Vorrei, perché immagino che non tutti abbiate ancora visto il libro, leggere un paio di testi a questo proposito, dell'uno e dell'altro tipo. Ce n'è uno che appartiene a queste poesie che sono scritte "a specchio", di fronte all'opera, che si chiama Cavalli e che avevo subito segnato perché tra l'altro qui c'è come un esercizio di grande bravura letteraria e di grande capacità metaforica, analogica, sinestetica, cioè tutta una serie di "arti" verbali che Egle mette liberamente, autonomamente in circolo: è quella di pag. 41 - e qui c'è il passato remoto, l'imperfetto, tutto quello insomma che è accaduto; è come dire: noi vediamo qui questa forma, ma da dove viene, come ha fatto ad arrivare fin qui, quale avventura prima della forma l'ha prodotto? Ripeto: scrittura congetturale; ma in fondo anche tanta grande poesia di poeti di professione, di lungo corso, si è svolta per congetture.

I cavalli vennero a specchiarsi nella luce

allacciati dalla briglia di un raggio di luna.

Di sulla soglia dello spazio del loro impero,

vibranti di splendenza aerea e di fiato d'ombra,

trepidi come la foglia del ramo alto,

apparvero come elementi sconosciuti

di limpide lontananze.

Per il loro avvento la terra zittiva.

L'ora nuova scrollò l'argento dei loro mantelli,

seminò squilli di luce nel vento che passava

ed esso raccolse anche il tinnire della loro trepidazione.

Ripeto, un pezzo di bravura con questo exploit finale addirittura degli "squilli di luce seminati": quindi "squilli di luce" è già sinestesia, ma "seminati" è seminati nel vento, il vento che poi li raccoglie, raccoglie anche "il tinnire della loro trepidazione". Quindi vedete che è una sorta di febbrile ascesa o regressione alla preistoria della forma in argomento, di questi "cavalli" che non so esattamente quali cavalli di Marino siano; ma appunto, qui c'è l'apice di questa originalità e di questo liberarsi rispetto alla schiavitù intenzionale che inizialmente lega la gemella al carro del grande fratello, il quale produce l'oggetto, produce quella forma di cui lei decide di occuparsi commentando (ma si è già detto quanto sia impropria questa parola); e volevo anche leggervi allora invece che cosa succede quando si passa alla pietra. Quando si passa alla pietra accade che la scrittura di Egle si faccia un po' più metafisica, proprio perché - ripeto - credo che manchi quella capacità di rifrazione e di forma compiuta, e allora il discorso si fa induttivo, astratto, e qui Pietre 1971 - certo in un catalogo della scultura potremo andare a vedere che cosa si chiama così -: però se non si avesse presente il soggetto di riferimento potremmo essere di fronte a poesie che le assomigliano, ad altri testi completamente svincolati dalle arti plastiche o figurative. In un caso la Del Serra ha fatto un riferimento molto opportuno, nella prefazione a Margherita Guidacci, a Il vuoto e le forme di Margherita Guidacci, poetessa di altra, successiva generazione, ma io credo che questa meditatività della parola di Egle, questa poesia del '74 - possa essere, anche per la libertà del ritmo, per questo tipo di scelta melodica, apparentata a questo stile - quindi separata e liberata dalla servitù - intendo in senso proprio - alla scultura del grande Marino.

Pietre 1971


È incluso nella pietra il peso corrosivo di una storia,

ma, sui segni sporadici in superficie, si è accanita un'unghia

per ricuperare quella storia.

Violato il segreto, si sono dovuti rimaneggiare gli elementi emersi,

sovrapponendo una maschera all'orrore ricostruito.

Maschera e orrore che sono temi caratterizzanti - anche l'orrore diciamo che è uno degli effetti che produce spesso la scultura di Marino, perché l'orrore è, nel volto, la paura, l'orrore nel volto di alcuni dei suoi personaggi scolpiti, e certo questo passaggio quasi automatico, questo effetto che immediatamente Egle sente, l'orrore ricostruito - e la maschera - tutte cose su cui Maura Del Serra ha avuto delle osservazioni molto notevoli nella sua prefazione. Cambia insomma in Egle il modo di leggere, di leggere l'opera d'arte quando si passi dal bronzo alla pietra.

Questo libro, di cui fra l'altro è stato detto molto, e voglio aggiungere che alla sua grazia dà un grande apporto la fotografia - il corredo fotografico è stupendo, e dispiace addirittura che non sia indicato l'autore di ciascuna di queste fotografie: spesso saranno i genitori, i parenti, ma è un corredo fotografico bellissimo, certo favorito dalla bellezza del soggetto, di Egle stessa, ma sono fotografie che veramente fanno epoca e fanno testo -; ma volevo dire che in questo libro, che è pur sempre un'antologia, se ciascuno di noi dovesse a sua volta, come capita, ritagliarsi una più leggera, una più agile antologia, io darei un rilievo sicuro a certe prose.

Ci sono delle prose che vengono chiamate Cronache, ad esempio, e che più che cronache sono delle "moralità", degli apologhi, a volte nella misura del poemetto in prosa che ricorda certi esemplari del nostro primo Novecento, degli anni '10; ce n'è una che non è nella sezione delle Cronache, ma è nella sezione precedente alle Cronache, alle quali però si salda benissimo e che si chiama Meccanismo, che mi è piaciuta moltissimo: quella degli orologi.

[...] È appunto nella scansione del verso, ma anche nell'uso della prosa, anche molto, a volte, umoristico, o grottesco, che la gemella Egle dimostra una grande capacità di autonomia. Io molte di queste prose le salverei in una - diciamo - memoria del XX° secolo, come quella che s'intitola Pidocchi fra i sassi, dove si parla di una chiesa e di un convento, andati in rovina, offesi dalla presenza di persone che non hanno rispetto per la sacralità di questo luogo, e alla fine (c'è stato il restauro) finisce con una frase che, ora che è restaurata, gli uccelli hanno già ricominciato a nidificare lassù in alto sul cornicione, sotto il tetto. Sono cose molto interessanti, e una che naturalmente prende - ed è lì, mi pare, che nella prefazione Maura Del Serra facesse quei nomi che ho citato poco fa, cioè di Kafka e di Tozzi, è quella del Sogno, del sogno del padre morto, dove il padre morto è però un morto che ha tempo di sollevarsi, di guardare la figlia - è un incubo, ma un incubo leggero, non fosse altro perché al padre viene messo per la vestizione ultima un vestito di carta lucida, con cravattino a fiocco nero, e poi è bellissimo quando dice: "Poi, nella strada l'autobus: i morti dentro, seduti eretti, separati da posti vacanti, composti pel viaggio ordinatamente".

Questo è bellissimo - appunto sarà forse, sì, una memoria di quell'espressionismo a cui si riferiva Maura Del Serra -: sono comunque delle pagine veramente molto belle -, e così, secondo me, è interessante - qualcuno introducendo oggi ne parlava - nella tipologia della lingua e delle combinazioni lessicali di Egle Marini, questo rapporto fra la scultura e il silenzio, ma è un silenzio musicale.

Silenziosamente sonora - sonoramente silenziosa: cioè sembra che questo bisticcio, questo ossimoro, questa combinazione di contrari, sia, come dire, una delle virtù dell'opera d'arte, e torno in questo caso alle poesie che dicevo servili, se funzionali a illustrare e indagare sulla scultura di Marino, e questa silenziosità sonora è un elemento che percorre un po' tutto il viaggio di Egle Marini, la quale poi ogni tanto, ha anche facoltà di ricapitolare alcuni elementi della propria poesia. Ci sono, non prive di interesse, anzi sorprendenti, calcolando che erano frutto delle intelligenze di un'ottuagenaria, diverse cose dell'ultimo periodo, quando per esempio lei si dedica a Ritratti e Ritrattini come riscoprendo, ma nella parola, la propria abilità, la propria valentía di pittrice che ha interrotto troppo presto la sua carriera - e qua abbiamo dei ritratti che sono anche molto spiritosi: c'è per esempio il ritratto di una donna da romanzone Ottocento francese, che però finisce che ha le narici molto pelose, le sopracciglia cespugliose - quindi viene fuori una sorta di ritratto orrido -, ma poi in un Ritrattino che segue di poco, il ritrattino si sposta dal fuori al dentro - non interessa tanto vedere i nasi o le sopracciglia, interessa vedere che "dietro allo sguardo - specialmente - / qualcosa ardeva provocato da / un lento costante tepore che segretamente / contribuisse alla consunzione / di un cero acceso...". Ci sono questi passaggi dall'esterno all'interno che sono caratteristici dell'ultima fase, dove può appunto capitare che si arrivi vicini all'aforisma, alla concentrazione estrema, come in una poesia degli ultimi mesi di vita, quella che s'intitola Sordità - Afonia, dove semplicemente, ma gravemente, si enuncia che "lo specchio che, per suo merito / specifico di fedeltà non ha / contatti con la fantasia, non / è partecipe di alcuna realtà".

Quindi se non si ha contatto con la fantasia non si partecipa di alcuna realtà. Sembra una massima, una sentenza, che vale retroattivamente e fino agli ultimi giorni a designare il laboratorio di questo personaggio così inquieto ma così puntuale nelle sue manifestazioni.

Vorrei ancora dire qualcosa delle Pomone. Le Pomone tutti abbiamo presente che cosa siano nell'attività della grande scultura di Marino Marini. Quello che mi ha interessato al di fuori di certi ricorsi figurali abbastanza scontati, cioè il colore biondo delle messi, il presentimento da qualche parte, del mare, il grano, i frutteti, insomma tutto quello che serve per fare da contorno ad un tipo, com'è appunto tipo la Pomona, mi ha interessato perché in una serie di poesie che si aggirano tutte intorno a questo soggetto, c'è anche il ricorrere di un bisticcio, fra l'altro illustre letterariamente, che non credo che sia fortuito, visto il suo ricorrere quattro-cinque volte, dove si trova sempre nella stesa composizione, magari con simmetria, in apertura e chiusura, si trova "l'ora" e "l'oro", cioè si trova l'ora, quella dell'orologio, del tempo, e l'oro che rappresenta un po' il fondale di queste scene; sono nomi che possono sembrare appunto vagamente alla Petrarca, e rappresentano anche qui, come dire, una via d'uscita, una soluzione letteraria a questi testi che rischiano se no di essere eccessivamente vincolati al soggetto della scultura.

Qui, da questo libro, noi abbiamo l'idea di una persona che, sia pure con molta discrezione, non era assente non dico dal dibattito letterario, ma non era estranea ai progressi, diciamo, che faceva la poesia contemporanea intorno a lei, anche se, per lo meno a me personalmente manchino completamente dei punti solidi di richiamo, per esempio sul gusto, su quali autori preferiva e quali meno le potessero piacere; ma tornando appunto per esempio al tema della pietra, io credo che una certa poesia petrosa, non nel senso che la pietra ne sia il soggetto, ma che la pietra imponga una lingua scabra, io credo che si possa dire che le poesie come queste del '74 erano certo poesie nel cui orecchio c'era il senso per lo meno complessivo, il senso maggiore del tragitto che la poesia aveva fatto intorno a lei, intorno a Egle. Dice:

Architettura d'ombra e di silenzio,

forse un profilo e una cadenza;

ma l'uno schernisce l'altra,

un vuoto insulta un pieno,

ogni versione ferisce.

L'umiliazione, ricacciata a pezzi dentro le asprezze della pietra,

ha mischiato i contrassegni e si è costruita il covo di rovi.

E qui ci sono tutta una serie di richiami fonici. Sentite: "dentro" - "pietra" - "contrassegni" - "costruita", cioè sono tutti sintomi di un lavorío dentro il linguaggio che può essere forse lontanamente analogo allo scavo, diciamo, della pietra, da parte del fratello, ma che è uno scavo, di fatto, dentro la parola. Forse Maura Del Serra, non ricordo se qui o altrove, ha richiamato perfino l'abisso, l'abisso ungarettiano, uno di questi grandi temi novecenteschi insieme al deserto.

Ecco, non voglio dire più nulla, salvo che a volte ci siamo perfino io e altri che hanno letto queste pagine, divertiti, quando è venuto in ballo il conflitto fra generazioni, quando per esempio la generazione matura si mette a giudicare la generazione dei giovani, e insomma, naturalmente Egle non può essere in quel momento con la generazione dei giovani, ma c'è un certo distacco ironico, e addirittura a volte qualcosa di più forte dell'ironia, che rappresenta proprio la posizione dell'autore.

Quindi un libro, come diciamo spesso, a posteriori, un libro necessario: ora c'è questo libro necessario; io vorrei proprio cercare di svincolarlo dal genere del "commento" puro, che era già stato conosciuto abbastanza diffusamente in edizioni d'arte, del commento alle opere del fratello, e vedere questo percorso dell'autrice, nei suoi taccuini, nei suoi appunti, ed anche un gruppo non esiguo di testi che credo possano a buon diritto rivendicare un posto nella letteratura, non soltanto nella letteratura applicata alle arti figurative, o plastiche.


Silvio Ramat





Egle, il talento in silenzio

A cent'anni dalla nascita un libro riscopre la gemella di Marino Marini

La parola scolpita, un raffinato volume che raccoglie le poesie e le prose, in gran parte inedite, di Egle Marini in occasione del 100° anniversario della nascita, verrà presentato oggi (ore 17) in Sala Maggiore del Palazzo Comunale di Pistoia da Silvio Ramat, ordinario di letteratura italiana moderna e contemporanea nell'Università di Padova.

Pistoia non si è quindi dimenticata di Egle - "vetta abissale dell'iceberg Marino" - alla quale solo la fama è mancata, non il valore. Il volume - arricchito da un apparato fotografico di eccezionale valore sentimentale e documentario predisposto dalla figlia di Egle, Donatella Giuntoli - è stato curato con amorosa competenza da Maura Del Serra ed esce per i tipi dell'editore "m&m".

Di talento e di personalità Egle Marini ne aveva in abbondanza. Eppure, prima come pittrice, poi come poetessa e scrittrice, la sorella gemella del grande scultore pistoiese Marino Marini, fece una scelta di rinuncia, di assenza, di invisibilità, di sottrazione di sé agli altri. Abbandonò i pennelli, impugnò la penna, ma scelse di dire solo per sé "graffiando" il foglio bianco col pennino, come prima, con rapidi tocchi, aveva segnato la tela di tenui colori. Le cause non è dato di sapere: fu una sensazione di inadeguatezza a guidare le sue scelte? Una fragilità e insicurezza molto umane? O fu sopraffatta e intimidita dal confronto inevitabile e continuo con l'esuberante e via via sempre più famoso fratello? Fratello che pure lei amava, ammirava e stimava profondamente, essendo a lui così eccezionalmente vicina per congenialità di ispirazione da diventare a volte coscienza stessa della creatività di Marino. Certo, con il più celebre fratello condivise "l'ansia della realizzazione" e sull'arte di lui offrì un illuminante, profondo, personalissimo commento anche attraverso la parola scabra ed essenziale della poesia.

"Dal punto di vista espressivo - spiega Del Serra - quella di Egle Marini è una produzione letteraria originale, non crepuscolare, non provinciale, né dimessa, anche se scriveva da Pistoia, "la città del silenzio". Una scrittura espressionistica che affonda le sue radici e trae linfa da un vissuto personale scottante, vibrante, inquieto, fatto anche di 'scottature' e di delusioni; ma una scrittura mai consolatoria o sentimentale, anzi...".


CESARE SARTORI

"La Nazione", 7 dicembre 2001





Rime della Gemella di Marini

Molto legata al fratello scultore, ne interpretò le opere con le sue liriche

Merita attenzione la riscoperta della personalità letteraria di Egle Marini (1901-1983), sorella gemella del celebre scultore Marino. La loro città, Pistoia, ricorda Egle con un libro che ne raccoglie liriche e prose, La parola scolpita, a cura di Maura Del Serra (Pistoia, Artout, pagg. 143, lire 40.000), corredato da una quantità di bellissime fotografie di Egle e dei familiari, scelte e spiegate da Donatella Giuntoli, che di Egle è la figlia. La formula "parola scolpita", di per sé efficace, si lega veramente solo al primo gruppo di queste pagine: dove Egle - che fin sui trent'anni praticò la pittura, per poi staccarsene, come scoraggiata dalla troppo forte personalità del suo gemello - fornisce, in versi, una serie di "interpretazioni" delle sculture di Marino. Si tratta di testi già editi nel 1975 con l'improprio titolo di Commenti poetici.

Io parlerei meglio di "interpretazioni", di "congetture". Infatti, Cavalli e Cavalieri, Pomone e Danzatrici, Acrobati e Giocolieri - forme che si reiterano nel repertorio di Marino -, Egle non li "descrive" propriamente. Semmai cerca di ricostruirne le genesi all'interno di un processo di fantasia, e magari, specie nel caso di "cavalli" e "cavalieri", di immaginare in qual direzione, per dir così, procedano allontanandosi dal luogo in cui lo spettatore li contempla. Destino dell'arte è un'infinita mobilità. "Cavallo e cavaliere - ramo a ramo spoglio / vicini per un debito scambiato ora per ora - / la zampa e la mano al lume delle lucciole, / salgono per spazi e imperi". Insomma il punto di vista di Egle non è privo di originalità. Quando poi la materia osservata non è più il bronzo ma la pietra, sembra che la riflessione si complichi, si astragga, quasi accusando il minor effetto di rifrazione luminosa della pietra in confronto al bronzo: "L'idea si è riposta nel masso di pietra - / immedesimata con il profilo della sua architettura / e col segreto cammino della sua vena / a sciogliere una perplessità, affinare una trepidazione, / orchestrare un "crescendo" con il sussidio di cose perdute". Di fronte a noi non vediamo più l'oggetto ma (forse) i preliminari della sua nascita. Questi esercizi "sul tema" si svolgono tra il 1951 e il 1974. Ma intanto quel che c'era di più moderno e spregiudicato nell'intelligenza di Egle produceva scritti sistemati oggi nelle sezioni Inediti e Cronache, che arrivano al 1978.

Del resto, nemmeno da ultimo Egle fu banale, mostrando una vena epigrammatica ("Custodire un segreto / non significa tenerne stretta / la chiave") e vergando "ritratti" che surrogavano per mezzo della parola l'accantonata professione di pittrice. Raccomanderei di leggere soprattutto certe prose brevi e intense: da Meccanismi (1960), dove la marcia degli orologi rappresenta un ordine ossessivo, a Il sogno (1965), che induce la Del Serra a evocare Kafka e Tozzi per l'inscenamento della morte del padre in una calma terribile. Quando non la vincoli il paradigma formale del suo, peraltro amatissimo, gemello, Egle dunque è più lei: scrittrice di senno e di ironia, abbastanza a giorno anche dell'evolvere della lingua letteraria.


SILVIO RAMAT

"Il Giornale", 28 dicembre 2001


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