Presentazione del volume di Maura Del Serra "L'uomo comune. Claudellismo e passione ascetica in Jahier", Bologna, Pàtron, 1986
Mi ricollego al discorso avviato dall'amico Luti: seguirò gli appunti che ho preso durante la lettura, per ragioni di rispetto del tempo concessomi, ma anche di rispetto del lavoro di Maura Del Serra, così articolato e denso di riferimenti interni, di suggerimenti e rimandi dall'opera alla continuità del discorso critico, che costituirebbe inciampo ad un "dire" troppo libero e vagante.
Sono d'accordo, intanto, su questa nuova stagione della critica jahieriana, sul lavoro di una nuova generazione critica che si è avvicinata non solo a Jahier, ma anche agli altri vociani, con l'intendimento di rinfrescare i quadri di lettura e di "restauro" delle singole personalità: ciò si era reso necessario, e sentivamo un po' tutti che una certa generazione - alle responsabilità della quale partecipiamo anche io e Giorgio - di fronte a questi scrittori si era piuttosto occupata del loro essere e vivere comune, dei loro valori di partecipazione a determinati, più o meno ampi, fronti culturali, che non della loro individualità, della loro operosità caratterizzante "in proprio". Questo sta ora avvenendo, ed è augurabile che prosegua, anche se, nel caso di Jahier, mi sembra che si vedano tuttora un po' meno i benefici del lavoro avviato; che cioè, nonostante la buona impostazione dei lavori di coloro che sono già stati citati da Luti (in particolare Briganti, Forni, Giordano da una parte, e dall'altra Luperini, il battagliero Carpi e il non meno schematico Isnenghi), questi siano rimasti tributari di una nozione totalizzante del vocianesimo: si tramanda ancora, da diverse sponde metodologiche e ideologiche, l'equivoco pericoloso per cui da una parte Jahier ha rappresentato il tipo del "vociano perfetto", e d'altra parte che l'opera di Jahier sia tutta quanta assorbita e spiegabile col suo vocianesimo: quindi il vocianesimo che serve per spiegare Jahier, e Jahier che serve per spiegare il vocianesimo. Molti elementi concorrevano a questa situazione di stallo, e anche di equivoco: lo stile di Jahier, quel suo "scrivere per fare", quel suo attivismo moralistico che sono passati da lui (che ne fu "gerente responsabile") al sigillo generale della rivista, senza discriminazioni esatte di che cosa sia, per esempio, il problema delle "cose invece di parole" (che è un po' la tentazione di non pochi vociani, e che invece sarà il punto di forza di Rebora) - e invece l'impostazione ben diversa della testimonianza, delle eventualità di poesia e di moralità che vigono energicamente all'interno della coscienza di Jahier. Inoltre la sua religiosità scontrosa, povera (non nel senso di "umile in sé" o di "tenue", ma di "ispirata a una paupertas fondamentale", una virtù rara e difficilissima): una religiosità in cui Jahier si è riconosciuto. Di religione, o di religiosità, molti vociani hanno parlato, anche tutti i più francamente laici: ma è particolare il caso di questo valdese scontroso, che era guardato un po' come un fenomeno vagamente maniacale nella sua assolutezza e nella sua coerenza spirituale e intellettuale, nelle sue totali e piene responsabilità, che hanno certo ancora aggravato questo mantenerlo nel limbo di un vocianesimo onnicomprensivo. Lo stesso si può dire per l'interventismo di Jahier, nei confronti delle scelte da compiere fra il 1914 e il '15: interventismo a cui segue una partecipazione attiva e profonda alla guerra del '15-18. L'interventismo era comune a tanti vociani e a molti spiriti che alla cultura della "Voce" facevano capo: ma, di fatto, anche l'interventismo di Jahier è anomalo, ha una sua configurazione tutta particolare, resta come chiuso nel mistero della sua indagine profonda, di una spiritualità e religiosità singolare: per non dimenticare, poi, il suo silenzio, che materialmente ce lo consegna alla fine della guerra, al congedo del 1919: e ce lo restituisce soltanto curiosamente "sopravvissuto" negli anni del secondo dopoguerra - con importanti manifestazioni di sopravvivenza: basti pensare alla sorpresa che furono per tutti (a cominciare da noi allora giovani) le Contromemorie vociane: sorpresa e quasi grido di allarme, in questa rivolta verso un Prezzolini che ancora ci sembrava, bene o male, aureolato dei meriti di un'impresa culturale irripetibile e indubbiamente positiva nella storia del nostro Protonovecento.
È vero, dunque, che c'è un recupero della lettura di Jahier: ma mi pare che si svolga per tentativi e per approfondimenti parziali; il saggio della Del Serra invece si distingue nettamente e decisamente da questi tentativi, perché presenta proposte interamente nuove, secondo direttrici per lo meno inconsuete al lettore nostrano di critica letteraria, specialmente in queste generazioni. Il primo capitolo, le primissime pagine di presentazione al libro, offrono subito una dichiarazione di intenti molto precisa: l'avviso, cioè, che nonostante la quantità e la varia qualità dei contributi, la ricettività della critica, e di conseguenza del pubblico, nei confronti dell'opera di Jahier, è tuttora condizionata e ridotta da alcuni elementi dei quali bisognerà tener conto in negativo nel corso della lettura: la"petrosità programmatica", difficile a intendere nel suo austero segreto; quel "parlato scalando" che fa parte della sillabazione all'orecchio dell'anima durante l'ascensione montana; i caratteri del suo singolare lirismo normativo e pedagogico, quel voler insegnare e comunicare nella ricerca dolente e dolorosa non tanto di una pace quanto di una giustificazione vitale: e infine l'avventura - come è stata vista per lo più - dell'esperienza come coscienza creativa, cioè il difficile rapporto di giustificazione e autogiustificazione dell'essere poeta o del fare poesia, la giustificazione della poesia nei confronti della vita. Se questa somma di elementi costituisce l'ostacolo di carattere critico e di lettura, e si configura quasi come pregiudizio allontanante il testo di Jahier, il fatto si è - afferma fin dall'inizio la Del Serra - che questo ostacolo nel suo complesso è di natura religiosamente refrattaria, con una specificazione di questa refrattarietà nel senso più etimologico, di "originalità" religiosa: come tale, sfugge alla presa di una critica che si avvalga di puri strumenti letterari. Ne deriva, da parte della Del Serra, una decisa mossa di avvicinamento e di riconoscimento della sostanza con cui si attua l'itinerario di Jahier, nelle sue tre fasi canoniche: le Resultanze, Ragazzo e Con me e con gli alpini: è la classica tripartizione delle opere jahieriane quali tappe ascetiche - ascetiche anche qui in senso etimologico, come esercizi diagnostici e terapeutici giusta la tradizione agostiniana della confessio nella sua triplice valenza (confessio peccatorum, confessio laudis e confessio fidei): sovrapponendosi cronologicamente le due prime tappe nei confronti della successione delle opere (la confessio fidei sarà soprattutto quella di Ragazzo).
Questo ancoraggio preciso a un problema, a un carattere religioso nello svolgimento della personalità di Jahier è, a mio avviso, di grande momento, e prospetta il modo di leggere questo autore in una dimensione che certo non ci è consueta, che mette in discussione le abitudini tipiche di un prevalente, e tecnicamente disarmato, laicismo tradizionale (specialmente in Italia) che non trova nemmeno la terminologia atta a descrivere o ad approfondire temi e prodotti di carattere intrinsecamente religioso. Questa è una constatazione che ci porterebbe molto lontano: si aprirebbe una disamina che riguarda una intera tradizione culturale, la nostra cultura risorgimentale e post-risorgimentale fino ad oggi; ma è certo che potremmo e dovremmo invocare la disponibilità di strumenti critici adeguati quando ci incontriamo col caso di Jahier (e di alcuni altri vociani): il caso di uno spirito, di uno scrittore, che prima di tutto si manifesta come religioso. Invece, qui si cade sovente nel punto di fuga del fare i confronti immediati - quanto è risultato in valore estetico, quanto è rimasto nelle intenzioni: che è una sorta di fiscalismo di ritorno, o di riparo - oppure del descriverlo in termini approssimativi quali "irrequietezza" "ansia", "vocazione all'assoluto", "problematicità", ecc., senza mai identificare quello specifico motore di carattere religioso che pure il testo promana e richiede. La strategia della Del Serra è allora quella di assumere consapevolmente e responsabilmente questo dato che caratterizza lo scrittore Jahier: e alla dichiarazione preliminare fa seguito l'articolarsi di una strumentazione, e linguistica, e tecnica, e di confronti, ampiamente motivata e provata nel corso di tutto il libro. Direi che il rischio per il lettore, e il pregio che questi poi ne ricava, è il seguire con attenzione lo svolgimento di questa scelta critica della Del Serra, la quale si muove con una lettura doppiamente attenta: una, che storicamente e stilisticamente si volge all'attuazione reale degli eventi scrittòri, testimoniali, poetici, di Jahier, in tutte le tracce consentite dai testi disponibili, dalle soluzioni apprendibili del fatto letterario; l'altra, che contemporaneamente, in un continuo intreccio di petizioni e di richiami, si manifesta invece attenta alle più decisive manifestazioni metaletterarie (cioè appunto religiose) le quali in Jahier si specificano come itinerario o "anabasi della coscienza", tesa al recupero del divino già espulso o "deietto".
L'impegno è dunque: 1) di interrogare i testi prodotti dalla refrattaria religiosità che li motiva dal profondo; 2) di verificarne le risposte in rapporto con la realtà delle relazioni sociali, culturali, linguistiche e politiche in cui si muove ed agisce il poeta Jahier. Questa valorizzazione a parte subiecti della religiosità angosciosa e pugnace dello scrittore risulta poi armata di argomentazioni specifiche, attrezzate su ambedue i fronti (che sono complementari) ed è svolta con riferimenti filologicamente persuasivi mediante una disponibilità di linguaggio pertinente alla non agevole situazione di complementarità dei piani del discorso: l'uno rivolto al pur fecondo ma segreto (o quanto meno enigmatico e sconvolgente) momento "fuori tempo" della coscienza; l'altro palese e accertabile, ma di una palesità ancillare, non vicaria ma parallela all'ineffabile, come appunto la Del Serra avvisa. L'operazione è condotta egregiamente nel corso e a conclusione del saggio; il quale giova assai anche a correggere con energica sterzata la rotta di lettura tautologica di uno Jahier che realizza, come avvertito prima, il tipo vociano, e che d'altra parte è chiamato a spiegare o a rappresentare il vocianesimo: ad illustrare, insomma, l'ipertrofia coscienziale del proprio calvinismo.
Da questa premessa sulla religiosità, che si dirama e si fa pagina viva nel corso di tutto il saggio, possiamo passare a qualche momento della lettura fatta da Maura Del Serra: il primo capitolo (e i capitoli hanno titoli anch'essi estremamente significativi: servono, come dovrebbero sempre, da guida e suggerimento nella lettura, come risultati finali del lavoro e della scoperta che nel capitolo risiede) è I pesi del radicamento, che fa seguito alla presentazione di intenti con una fitta rete di indagini e di richiami, trasversali alla diacronia, che illuminano lo svolgimento e la sostanza del lavoro di Jahier, inteso nella sua spiritualità profonda e nel senso drammatico che hanno i "pesi", gli ancoraggi terrestri dell'anima alla contingenza e all'avventura, in perdita, della vita sulla terra. Ciò che conta è il radicamento dell'uomo comune e il valore di questa immagine, che è speculare a quella dell'uomo senza qualità: è l'attore metastorico essenziale di quella che la Del Serra chiama l'"ascesi unanimistica" di Jahier, dove, oltre che il sostantivo, va inteso l'aggettivo, che vuole eliminare gli equivoci sul carattere populistico o generizzante, rivolto ad un collettivo anonimo: invece "unanime" vuol dire "proprio della coscienza o del riflesso di ciò che si fa sensazione di un'anima collettiva nell'anima singola": è, in sostanza, l'atteggiamento fondamentale dell'etica jahieriana, il "portar pesi" contro lo "schivar pesi", l'assunzione della fatica, dei "dolori" e dei "sacrifici" come premesse delle conseguenti "consolazioni" (terminologia specifica, ed amplificativa, di ciò che queste parole significano nella tradizione cristiana - non soltanto cattolica, ma cristiana, anzi ebraico-cristiana, riflessa nell'esperienza del valdese Jahier). Quindi il tema, il motivo dello sradicato - il contrario dei "pesi del radicamento", il prezzo da pagare per il radicamento -, dello spatriato (nel senso, prima di tutto, di "senza padre", oltre che di "con patria lontana") nei termini tragici seguenti il suicidio del padre, pastore valdese, per "peccato". Lo spatriato è mosso eticamente, perché prima di tutto religiosamente: sarebbe un equivoco, che lo ricondurebbe al gruppo vociano, l'allargare la comune radice etica e farla diventare una valenza di carattere religioso: si tratta semmai, gerarchicamente, di una religiosità che si fa etica, cioè pratica. Jahier è quindi mosso religiosamente verso una fatica di architettura interiore, che è il processo lungo e pertinacemente, dolorosamente da lui inseguito nel corso di tutta la sua pur breve vita di sperimentatore del dramma della poesia. È qui che si innesta la scelta: è subito un problema di rapporto con gli altri contemporanei, quel rifiuto delle parole, della parola in senso dannunziano: e vedremo come questo rifiuto, o ribrezzo, sarà costretto ad entrare in funzione anche alla fine, nel rifiuto o nel congedo dall'esperienza claudelliana. Né, d'altra parte, ci sono le "cose" senza le parole (le "cose" reboriane, a cui si è fatto già riferimento): ci sono, semmai, riconoscimenti polemici, e comunque sempre istantanei e provvisori. Questa drammatica provvisorietà dei riconoscimenti e dell'esperienza innesta qui un'altra questione profonda, che riguarda le rese stilistiche di Jahier in quanto singolo, autore in piena e personale responsabilità: quella del "frammentismo". La poetica del frammento, genericamente ma realmente riconoscibile e diffusa in gran parte degli scrittori vociani, si costruisce, in Jahier, un'identità e individualità assai più densa di rischi e di verità, di "serietà", nel suo non finito e incompiuto che è tale in nome di una compiutezza di sincerità, di verità dell'atto che presiede allo scrivere: e quindi enuclea dal magma genericamente vociano anche questo aspetto della produzione jahieriana. Infatti, mi sembra si possa dire che l'atto poetico (attraverso questa interpretazione della Del Serra che io qui riduco in soldoni, ma che invece è assai più ricca e conseguente nel testo) si giustifica in quanto è agire dell'anima, ricerca e messaggio, ma insieme, e soprattutto, penitenza e verità: insomma, il canone grande della tradizione cristiana.
Qui nel primo capitolo la Del Serra estrae dal "fare" lirico di Jahier le precisazioni coordinative della poetica anti-intellettualistica e dell'"anti-artismo" (espressione propria di Jahier): da una fitta trama di riferimenti che attraversano la diacronia, si giunge alle prime prese di posizione dello scrittore, fino a quello straordinario Colloquio con l'anima di Pavese che segue alla seconda guerra mondiale (ed è uno dei pochi lacerti, delle poche interruzioni del silenzio di Jahier) dove è ricostruito il sostanziale ritratto dell'"uomo comune" che aveva già preso capo ironico nel Ritratto dell'uomo più libero del 1914 (e qui mi occorre una citazione: "Quest'uomo non è un artista perché troppo vuol vivere anziché formare opere. Però il suo atteggiamento è interessante. Daremo incarico a un artista di cantare le sue cose in persona prima. E lui lasciamolo continuare a viverle. Rimanga ben inteso che quest'uomo non è un artista. Siamo tutti d'accordo che quest'uomo non è un artista"). Molto interessante, e necessaria appendice a questa citazione da Jahier, cade l'osservazione della Del Serra (molti spunti preziosi sono relegati in nota) in rapporto all'uscita nel 1913 del Breviario di estetica di Benedetto Croce, a cui ironicamente si oppone questo Ritratto dell'uomo più libero: nota la Del Serra che l'analogia, "fomentata dall'impronta crociana di partenza polemicamente operante nell'area vociana", fra l'estetica del Breviaro e "l'ethos lirico vitale di Jahier si scioglie, in parte, alla luce dell'effettivo impegno quotidiano che è, per quest'ultimo, garanzia di riscatto dal lusso di assolutezza della missione poetica. La redenzione jahieriana del quotidiano va cioè dall'utile, meccanico-strumentale, al necessario, spiritualmente portante, non già dall'utile al bello né alla 'storia eterno poema' del Croce": suggerimento, questo, assai importante.
é già stato detto da Luti quanto sia centrale il capitolo dedicato all'Immersione claudelliana; è ben nota la fortuna di Claudel nell'ambiente vociano, ma, al di là di questa concorrenza di plauso e ammirazione diffusa, la scelta di fondo, decisissima, per la quale Jahier riconosce, o si illude di riconoscere, in Claudel una sorta di padre-maestro, quasi (come qui è giustamente sottolineato e affermato) una sostituzione alternativa, vincente, della figura del padre. È ben nota (anche perché studiata da uno studioso francese) anche la vicenda dei rapporti e del successo della poesia di Claudel in Italia, e così l'affermazione nello spirito di Jahier della presenza claudelliana, soprattutto centrata sulla traduzione del Partage de midi, di quella parziale dell'Art poétique, e di alcune Odi di Claudel. Il punto focale è la traduzione del Partage: qui il lavoro della Del Serra tocca uno dei punti di realizzazione eccellente, soprattutto nel confronto dei moduli di traduzione adottati da Jahier nella prima versione e poi nella revisione, fatta molti anni dopo, dello stesso testo. La direzione della traduzione in senso "vernacolare", la direzione "intensificante", e quella che invece tende a fondere le due in una direzione "familiare-vernacolare ma intensificante" risulta di straordinaria persuasività e dà luogo a un lavoro fino a questo momento nemmeno tentato, dai risultati estremamente indicativi sul tipo di questi mutamenti di coscienza del traduttore nei confronti del testo: non nel senso di un miglioramento estetico della traduzione (che sarebbe un discorso a parte) ma semmai nella coerenza della scelta di condurre il lettore verso il testo, e non il testo verso il lettore, com'è l'altra possibilità. Il capitolo che riguarda Claudel si conclude sulle motivazioni del dissapore, delle incomprensioni e del congedo fra i due: pare evidente che quel sontuoso e carnale dogmatismo cattolico di Claudel, con quanto portava di decadente e di sfarzoso, di gerarchico, veniva ad urtare con la più decisa sensibilità morale di Jahier. Ci sarebbero qui molte osservazioni da fare: mi limiterò ad una sola prima di concludere, a proposito di questo rapporto con Claudel: leggendo queste pagine della Del Serra mi veniva in mente un testo dei surrealisti, una lettera aperta a Claudel firmata da Jacques Prévert, probabilmente del 1922 o '23, in cui - a una intervista rilasciata da Claudel, che si era vantato (dal suo punto di vista giustamente) di avere durante la guerra trafficato a favore della Francia in Brasile, soprattutto per commercio di carni, e di avere in tal modo fatto guadagnare alla patria duecento milioni di franchi - Prévert, Aragon e gli altri rispondevano: "non regge in freschezza che un'idea morale: quella che non si può essere ad un tempo poeti e ambasciatori di Francia". Credo che, alla lunga, proprio la condotta e le scelte dei due personaggi, di Claudel e di Jahier durante la guerra, avrebbero indotto quest'ultimo a guardare con estremo dolore questa figura ormai abbandonata di padre spirituale, di padre-maestro sostitutivo.
Quanto ho detto a proposito di questi due primi capitoli è in linea di massima riconfermato e illustrato in quelli seguenti, soprattutto nel terzo, Il servizio lirico: morte e rinascita, dove si affronta il problema delle Resultanze. Sono d'accordo con la Del Serra in una cosa sostanziale: l'eccezionalità di questo libro, la tenuta della sua validità, la sua resistenza ad una lettura spregiudicata come si può fare oggi, di fronte alle limitazioni che molti critici, anche giovani, seguitano a porgli (a cominciare da Cattaneo), continuando a leggere le Resultanze in nome di una coerenza figurativa, o rappresentativa, carente nel personaggio irrisolto (che sarebbe il Gino Bianchi in questione): senza riuscire a captare quanto di sconvolgente ci sia in quella apparente frammentarietà, e quanto ci sia di ciò che non poté non piacere a Gadda! Non parlo affatto di fonti gaddiane in Jahier, ma - per adoperare un'espressione cara alla Del Serra - di un'"armonica" tematica che ha riscontro soprattutto nelle pagine dell'Adalgisa. Questo capitolo, e forse ancor più quello dedicato a Ragazzo, patisce però di qualche danno: quegli apporti di confronto minuto e prezioso, di una lettura larga, vivace e innovativa, nel terzo e nel quarto capitolo si riducono, in favore dell'ossatura ragionativa: ho poi saputo che sono state espunte redazionalmente cento pagine di note, per ragioni di commercialità editoriale: e questo ha reso ragione di certi vuoti. Mi pare perciò che si debba invocare un recupero urgente di quel materiale, magari sotto forma di articoli da pubblicare in rivista, o altrove.
Veniamo rapidamente al congedo, a quel Con me e con gli alpini che è il punto più problematico, il "come e perché" si giustifichi (anzi, finisca per non giustificarsi mai pienamente) la partecipazione e la scoperta dell'io nel dovere della guerra, e la reinvenzione interna, tutta di carattere religioso, della figura paterna nei confronti del popolo soldato. Non c'è niente di più lontano dalla retorica di guerra (anche delle pagine migliori che gli stessi vociani ci hanno lasciato) di Con me e con gli alpini, che è volutamente costruito come libro di meditazione e di preghiera corale, più che di celebrazione delle virtù popolari o autentiche, sane o primitive, degli alpini o del popolo. Del resto, in una nota avverte giustamente la Del Serra che la religiosità di Jahier non è primitiva, ma primordiale: il che é cosa ben diversa.
Il motivo che conclude il saggio lascia ancora una sorpresa positiva: la Del Serra affronta il tema delle due riviste, "L'Astico" e "Il Nuovo Contadino", che tanto inchiostro hanno fatto correre per la loro natura di riviste di collaborazione alla guerra (il primo era "il giornale della armata" e il secondo quello che dopo la guerra avrebbe dovuto continuare il rapporto fra i soldati vittoriosi e le loro virtù scoperte appunto in guerra, di semplicità, laboriosità, di pace sociale). Anche questo discorso è impostato dalla Del Serra in modo assai meno squadrato, rozzo e schematico (aggettivi che sono stato costretto ad adoprare per Luperini o Carpi) sul piano delle limitazioni di carattere ideologico: del resto, sentir parlare Carpi - che so? - delle "motivazioni implicitamente reazionarie" del "Nuovo Contadino", in quanto vi si rifletteva "una sostanza toscano-mezzadrile", francamente fa un po' senso: mentre proprio lì si spendono le ultime energie della partecipazione spirituale e religiosa di Jahier alla realtà della vita, nonostante e ben di fronte alle negazioni essenziali: da una parte la delusione della rivoluzione sovietica, accusata di un "operaismo" che negava la realtà contadina e le virtù contadine a cui Jahier si rivolgeva con una speranza di mediazione sociale; dall'altra, l'accusa e la delusione verso la Chiesa cattolica. Questi due opposti elementi negativi egli identifica, denunciando quel pareggiamento gerarchico, astrattivo e tutto sommato onniassolutorio che la Chiesa cattolica aveva assunto nei confronti dell'immane tragedia popolare. Ed è la ripresa finale di questa religiosità di Jahier, ancora una volta delusa dalla vita e nella vita, che continua a resistere, a risultare efficace in questo saggio della Del Serra: questo scegliere, preferire il "perdere nella storia" e "vincere nell'anima", che dà un senso alla consapevole sconfitta e all'ingresso di Jahier nel silenzio.
Concludo citando le ultime parole di Jahier, che si rivolge al "compagno Gallinella" nel congedo del "Nuovo Contadino" (congedo che, riprendendo la parola iniziale, direi unanimistico): "Hai ragione, Gallinella. Nessun ordine giusto può venire dalle classi privilegiate, infrollite dal benessere del privilegio. Il popolo dei lavoratori deve guadagnarsi il suo destino da solo. È per questo che chiudo oggi, con serena amarezza, questo giornale di collaborazione. Addio in fede, caro compagno. Ti ringrazio di avermi illuminato": è evidente che questo è un congedo di preghiera, di orazione corale, con il quale Jahier si congeda, appunto, per la sua più che ventennale immersione nel silenzio.
Io conosco da molti anni ormai Maura Del Serra, e qualsiasi altra parola, che pure mi verrebbe facile e agevole, di elogio per questo saggio, suonerebbe compromessa da una mia familiarità e consapevolezza più che decennale con lei, e anche dalla coscienza di quanto tutto il suo lavoro critico abbia anche questo di originalmente autentico: il muoversi a largo raggio, ma sempre su temi in cui il suo intervento possa reperire quegli elementi di spiritualità e di dialettica della coscienza che - in poetiche da Jacopone a Boine, da Campana a Onofri a Ungaretti a Rebora e oggi a Jahier - l'hanno vista in prima linea nella gerarchia di valori critici messi in opera in questi ultimi anni. Grazie.
GIULIANO INNAMORATI
Gabinetto Scientifico-Letterario Vieusseux di Firenze
18 giugno 1986 (inedito)
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